Vent’anni fa, in questi giorni, l’Opv del Credito italiano inaugurava le grandi privatizzazioni italiane. Per l’occasione Carlo Azeglio Ciampi – premier tecnico ed ex governatore Bankitalia – e il presidente dell’Iri, Romano Prodi, fissarono nello statuto di Piazza Cordusio (e poi anche in quello della “cugina” Comit, pure in lista di de-statalizzazione) un tetto al possesso azionario votante: inizialmente al 3%, allargato in seguito al 5%.



In omaggio alla strategia anglosassone decisa sul Britannia dal Tesoro di Mario Draghi, l’obiettivo era popolare di “public company” la Borsa, ma soprattutto un sistema capitalistico nazionale ancora chiuso. Più prosaicamente: si voleva sbarrare la strada a Mediobanca, che a meno di mezzo secolo dalla nascita in seno all’Iri aveva già privatizzato se stessa al centro di un sistema finanziario-industriale misto e relazionale, “senza capitali” e quindi bancocentrico. Via Filodrammatici era allora una sorta di Goldman Sachs domestica: una “banca centrale privata” che a Milano faceva da contrappeso – ma anche da complemento – alla banca centrale pubblica, che stava a Roma.

L’asse personale fra Enrico Cuccia e Guido Carli – governatore fra il 1960 e il 1975 – finì per modellare l’Italia del dopoguerra assai più di decine di governi. Forse anche per questo il “dream” di una palingenesi accelerata della finanza italiana dall’autarchia pubblica al mercato privato e globale andò in fumo: tempo pochi mesi e Mediobanca si ritrovò facilmente ad “autocontrollare” i suoi azionisti Credit e Comit attraverso noccioli duri che eludevano i paletti al possesso.

Nell’autunno 2013 riecco un venticello privatizzatorio, anche se il menù è molto impoverito, soprattutto privo di banche. Riecco anche il mito della “public company”: stavolta – un po’ curiosamente – per la stessa Mediobanca. E riecco i limiti al possesso azionario al 5%: parecchio curiosamente, per la Banca d’Italia. 

Il patto di Piazzetta Cuccia, già dimagrito nel dopo-Cuccia, preannuncia di esser ancor più “liquido” nel controllo di una banca che non è più da tempo la “Goldman italiana”, ormai in ritirata dagli ex gioielli Rcs, Generali e Telecom. Da tempo non è più nemmeno la “finta public company” governata con mano autoritaria da Cuccia e dal suo delfino Vincenzo Maranghi: il patto resta folto e variopinto, ma neppure i suoi attuali leader informali (UniCredit e gli azionisti francesi capitanati da Vincent Bolloré) recitano da pivot in un istituto in cui l’amministratore delegato Alberto Nagel è stato molto indebolito dell’inchiesta sul crac Ligresti.

Non solo per questo la “Mediobanca public company” non suona autentica: proprio quando la Banca d’Italia spinge per un consolidamento del settore bancario nazionale nei tempi stretti dell’avvio dell’Unione bancaria. E anche il bilancio di Piazzetta Cuccia – un tempo leggendario soprattutto per solidità patrimoniale – non brilla più al vaglio di Basilea 3 e dintorni. Stavolta, Mediobanca potrebbe affrontare il risiko creditizio interno da oggetto e non da soggetto; e con una prospettiva di fusione con UniCredit largamente prevalente su altre opzioni.

Il capitale di Banca d’Italia, dal canto suo, è destinato a restare quello che è da quasi ottant’anni: una proprietà del tutto dormiente, benché appartenga tuttora al sistema bancario vigilato e due “campioni” (UniCredit e Intesa Sanpaolo) ne controllino la larga maggioranza. Se il governo ha posto un limite al possesso votante al 5% è stato per una minima preoccupazione estetica laddove le quote sono state oggetto di rivalutazione nella legge di stabilità, con il duplice fine di garantire al Tesoro un prezioso gettito sostitutivo e alle banche un piccolo “bonus” nei patrimoni di vigilanza in vista dell’Unione bancaria.

Metter mano al delicato snodo a monte del vigilante nazionale – benché il rischio di condizionamenti rimanga nei fatti teorico – richiedeva una pennellata alla facciata, tanto più se le quote – in un futuro più o meno lontano – dovessero essere effettivamente trasferire ad altri soggetti: Fondazioni bancarie in primis, ha notato il ministero retto da Fabrizio Saccomanni, ex dg di Via Nazionale. Ma nel “marketing politico” del provvedimento si è riudita la parola “public company” e l’accenno agli “investitori esteri”: la nostalgia dell’epoca d’oro delle privatizzazioni e del leggendario “summit” sul Britannia evidentemente è dura a morire.

Così come non si spegne l’eco della “caccia alle streghe” scatenata nel 2005 contro la presunta “cattura” del governatore Antonio Fazio da parte di banche vigilate in occasione delle Opa AntonVeneta e Bnl. Ma il successore di Fazio, Mario Draghi, fu il primo a respingere il diktat della legge 262 “caccia-Fazio”, violando tranquillamente il termine triennale che imponeva il trasferimento della proprietà Bankitalia allo Stato: come avviene in tutti i grandi paesi europei. Berlino o Parigi aprirebbero il capitale delle loro banche centrali ai fondi della Goldman, agli hedge di Blackrock, alle gestioni di Warren Buffett? Forse solo se la sostenibilità del debito pubblico nazionale o l’esito di nuove privatizzazioni o la costruzione di una “bad bank” di sistema imponesse aiuti esterni non dall’Ue ma dal cosiddetto “mercato”. Può darsi che l’Italia non sfugga a questa “soluzione finale”. 

Nel frattempo anche il destino di Bankitalia appare privo di quella sostanza di autonomia e di proattività che è insita nella forma “public company”. L’ingresso delle grandi banche italiane nell’orbita della vigilanza gestita in via integrata da Francoforte sarà prevedibilmente l’ultima operazione di “brokeraggio istituzionale” affidato a via Nazionale.