Negli ultimi venti mesi, Tesoro e Bankitalia hanno commissariato Banca Tercas, Banca delle Marche e Cassa di risparmio di Ferrara. Tre istituti non grandi ma neppure minuscoli, tutti in grave difficoltà di bilancio e con il patrimonio eroso. Tre gruppi sulla cui passata gestione e sui cui vertici rimossi la magistratura ha aperto indagini. Tre banche controllate da una o più Fondazioni. Tre situazioni assimilabili a quella di Mps, in particolare il caso di Macerata, dove la Vigilanza ha lasciato che scendesse inizialmente in campo una figura come quella di Rainer Masera. Anche l’ex amministratore delegato di SanpaoloImi – stesso standing di Alessandro Profumo paracadutato a Siena – avrebbe dovuto far da garante a un possibile salvataggio di Banca Marche promosso da forze imprenditoriali locali (fra di esse anche la famiglia Merloni). Non se n’è fatto nulla: più o meno come a Siena la Fondazione – presieduta dalla numero uno degli industriali toscani, Antonella Mansi – si è messa di traverso a una ripatrimonializzazione del Monte con capitali privati.



Anche il Monte rischia il commissariamento? Forse è la concretezza della prospettiva che spinge il senatore Pd Massimo Mucchetti a invocare la nazionalizzazione con l’intervento “salvifico” della Cassa depositi e prestiti nell’aumento di capitale: dimenticando che lo Stato è già intervenuto con 3 miliardi di Monti-bond per puntellare la banca. L’ipotesi di ulteriore sostegno pubblico ha comunque subito fatto gridare allo scandalo le forze del centrodestra (ma non solo).



È certo che il commissariamento della banca non costerebbe nulla, al netto del valore ormai irrisorio che la Borsa attribuisce alle azioni Mps: che rappresentano peraltro ancora la magrissima garanzia offerta dalla Fondazione Mps per i propri debiti. È altrettanto evidente che il taglio netto del cordone ombelicale attorcigliato fra la Fondazione e la banca consentirebbe al commissario incaricato (Profumo stesso?) di portare avanti i suoi piani con pieni poteri: a cominciare dall’idea strategica di rilanciare il Monte come “public company” con il richiamo di grandi investitori internazionali. Perché non farlo? O meglio: perché finora non è stato fatto?



Continuiamo ad attribuire alla Banca d’Italia di Ignazio Visco – e al Tesoro di Fabrizio Saccomanni, ex direttore generale in Via Nazionale – onestà intellettuale e rigore istituzionale pieni: a maggior ragione pochi giorni dopo che un’assemblea straordinaria ha confermato la totale indipendenza dell’istituto centrale, anzitutto dalle banche azioniste. E quindi immaginiamo che le autorità monetarie proveranno fino all’ultimo a evitare il commissariamento di una big fra le banche italiane in mesi delicatissimi: quelli della relativa stabilizzazione del rating/spread sovrano e dell’apertura del cantiere dell’Unione bancaria.

Rifiutiamo di pensare che la Vigilanza abbia remore legate all’oggettivo incidente accusato in fase autorizzativa all’origine del “crash” Montepaschi: l’acquisizione Antonveneta del 2007. Analogamente, non prendiamo in minima considerazione i rumor polemici su presunte attenzioni speciali a una città-banca da sempre al centro del potere del Pci-Pds-Ds-Pd: per di più nella Toscana del neo-leader Matteo Renzi. In ogni caso, Profumo e l’amministratore delegato Fabrizio Viola non si sono ancora formalmente dimessi e c’è ancora tempo anche per verificare le conseguenze dello strappo assembleare su tutte le sponde: Borsa, agenzie di rating, Ue.

È altresì probabile che lo stesso Tesoro – titolare della vigilanza sulle Fondazioni – cominci a valutare il passo finora mai compiuto di commissariare una Fondazione. A Siena gli estremi non mancherebbero: la Rocca è l’unico ente che si è indebitato per mantenere il controllo della banca conferitaria, di cui oggi ostacola il rilancio, mettendo a repentaglio il suo stesso investimento e rifiutando perfino l’offerta di sostegno da parte di altre Fondazioni. Anche nel caso del recente rinnovo dei vertici della Fondazione Carige, peraltro, lo spettacolo è stato ben poco edificante. Eppure la cautela del ministro-tecnocrate di via XX Settembre è quanto meno comprensibile: le Fondazioni restano ancora troppo importanti all’interno della disastrata Azienda-Italia. E togliere virtualmente la fiducia a tutte le 88 “sorelle” dell’Acri potrebbe innescare reazioni imprevedibili.

Se a Siena la magistratura è tornata di fatto “in sonno” sul caso della banca cittadina, altri palazzi di giustizia potrebbero rispolverare pratiche già sperimentate: come “l’arresto” del 40% di AntonVeneta che nel 2005 la Popolare di Lodi aveva rastrellato sul mercato.