Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, sollecita “più poteri” dopo il caso Montepaschi: la facoltà, anzitutto, di sanzionare con la rimozione banchieri rivelatisi “not compliant” con le regole di vigilanza, o addirittura responsabili di illeciti. In misura più implicita – lo hanno ventilato alcuni commentatori in sua vece – Visco vorrebbe poi tornare “legalmente irresponsabile” nell’esercizio della sua funzione di vigilante: al sicuro, in concreto, da iniziative giudiziarie come quella avviata dalla Procura di Trani contro l’ex vicedirettore generale Anna Maria Tarantola nell’inchiesta sui derivati spacciati allo sportello.

Un governatore un po’ più magistrato (quindi inattaccabile dagli altri magistrati) e un po’ più poliziotto, guardando alla Sec, classico paradigma d’Oltreoceano. Nel gioco del “si salvi chi può” attorno allo tsunami bancario scoppiato a Siena, è comprensibile che Visco finisca per cercare protezione dietro ripari elementari ai limiti dell’imbarazzante: “Mi hanno ingannato”; e ora: “Avrei voluto e dovuto vigilare, ma non avevo i mezzi”.

Altri non hanno fatto di meglio: il premier Mario Monti, economista espertissimo di finanza e mercato, rimane muto come un pesce. Il ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, ha ribadito che la supervisione è compito di via Nazionale (dimenticando che quella sulle Fondazioni è invece demandata al Tesoro). Lo stesso presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, è costretto a rifugiarsi dietro la “diversità” della Fondazione Mps, ammettendo la costante “illegittimità” del suo statuto. L’Abi, eleggendo in tutta fretta al vertice Antonio Patuelli, non ha concesso neppure il più freddo dei saluti a Giuseppe Mussari, che era stato confermato alla presidenza meno di un anno fa.

L’autodifesa della Banca d’Italia, in ogni caso, suggerisce interrogativi più sostanziali. La richiesta (nazionale) di strumenti di vigilanza più incisivi coincide con l’apertura del cantiere dell’Unione bancaria: ed è in quella riforma che saranno ridisegnate competenze e standard. Ed è assai probabile che – a Unione bancaria operante – un caso come quello che ha interessato Siena (per dimensioni e addentellati sovrannazionali) sarà gestito dalla nuova supervisione unica.

Una delle ipotesi-base è che le “banche sistemiche” vengano tenute sotto controllo dalla stessa Bce, anche se non è scontato che uno stessa struttura accentrerà in via autonoma funzioni di politica monetaria e di supervisione creditizia (poco probabile con un italiano al vertice). È quanto meno curioso, comunque, che all’ultima conferenza stampa post-esecutivo il presidente della Bce, Mario Draghi, non abbia pensato di usare questo argomento per rintuzzare le prevedibili punzecchiature sul caso Mps. Invece di collocare l’incidente nella transizione internazionale post-crisi della supervisione creditizia, Draghi ha optato per risposte più dirette, ma anche più stizzite, in definitiva scivolose e deboli.

“Il caso Mps è gossip elettorale”, “Ho firmato io le ispezioni a Siena”. Una posizione sottilmente contraddittoria: se davvero attorno a una banca dell’Italia centrale si è alzato solo un piccolo polverone elettorale, perché l’ex governatore della Banca d’Italia si sente in obbligo di calare l’asso della propria autorevolezza istituzionale e personale? Per certi versi sembra fare eco al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che fa la voce grossa contro la minuscola ma esuberante Procura di Trani, proprio quando il suo collega statunitense Obama promuove una causa miliardaria contro Standard & Poor’s.

Ma ci sono altri conti che non tornano nell’affannato “ritorno al futuro” frettolosamente teorizzato da Visco: una vigilanza “pervasiva” nella governance delle banche; una Bankitalia “irresponsabile” è stata la regola fino a poco tempo fa: per la precisione fino al varo della legge 262 del 2005, quella che ha chiuso traumaticamente l’estate delle Opa, compresa quella che ha consegnato ad Abn Amro l’AntonVeneta poi presto rivenduta a Mps. È stato quel passaggio – segnato dalla cacciata esemplare di Antonio Fazio e dall’insediamento di Mario Draghi in via Nazionale – a decretare la fine della “civiltà interventista” di quella Bankitalia: combattuta all’ultimo sangue dalla City, dal commissario olandese all’Antitrust Neelie Kroes e da quello britannico al mercato interno Charlie McCreevy.

Nessuna banca centrale – tanto meno una ideologicamente fredda verso i mercati come quella di Antonio Fazio – avrebbe più dovuto permettersi di ingerirsi nelle questioni “di mercato”: cioè tutte, a cominciare da fusioni e acquisizioni bancarie. Mai più una vigilanza avrebbe dovuto arrogarsi il diritto di bloccare una superstar del listino come Alessandro Profumo nell’Opa UniCredit-Comit del ‘99: figurarsi il potere di rimuoverlo, che nella “civiltà del mercato” può spettare soltanto agli azionisti. Mai più avrebbero dovuto occhieggiare i mercati banchieri centrali insindacabili e irrevocabili com’era quello di Palazzo Koch, cui le crociate ultraliberiste infatti imposero il mandato a termine (che rende il governatore più ricattabile da politica e mercati). Via libera, dunque, a una vigilanza “moderna”: quella che appunto, nel 2007, non poté che dare immediato disco verde all’acquisizione Mps-AntonVeneta senza “due diligence”.

Il mercato ritiene di aver ragione per definizione: se un “gioco di mercato” impostato da tre grandi banche come Santander, Mps e Bnp (tutte a loro volta quotate) stabilisce che il valore di AntonVeneta è 9,3 miliardi (10,1 con le spese di intermediazione), una banca centrale “di mercato” non può mettersi di traverso. Al massimo può registrare il malumore degli azionisti: diventano loro i veri “vigilanti” della stabilità di un’azienda bancaria, in quanto ci hanno investito i loro quattrini.

Possono invece i burocrati di un’agenzia pubblica sindacare le decisioni di un top management come quello della terza banca italiana, quotata? Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, in questi giorni in Italia sulle trincee della libertà di stampa, li bollerebbe di vetero-statalismo ai limiti del sovietismo. Però è più o meno quello che, all’inizio del 2013, è tornato a invocare il governatore della Banca d’Italia: forse preoccupato che un’affermazione pronunciata del Movimento 5 Stelle, tra due domeniche, faccia prudere le mani a tanti “piccoli procuratori” come quello di Trani. Per i quali, beninteso, la “culpa in vigilando” dell’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, Anna Maria Tarantola, non è più l’aver vigilato “troppo” (cosa per cui l’ex governatore Antonio Fazio è stato pluricondannato). L’attuale presidente della Rai avrebbe invece vigilato “troppo poco”: lasciando fare ai mercati, alle banche d’affari, alle agenzie di rating.

Visco s’illude se pensa che la sua “restaurazione” non debba fare i conti con tutto questo: su come e perché è nata l’operazione Mps-AntonVeneta e su cosa si può/si deve fare ora per ridare ordine al settore bancario italiano/europeo dentro un’economia in sofferenza. Se invece il governatore continua ad additare come “problema dei problemi” le creste che si sono trattenuti i “mariuoli” del caso (sempre solo quelli italiani), sarà quasi certo che i magistrati – quelli veri – torneranno a bussare spesso in via Nazionale. E i politici appena dietro di loro. Con buona pace della “grande riforma liberista” di appena ieri.