L’elezione di un nuovo presidente per lo Ior è stata una buona notizia anzitutto per la Chiesa al termine di una settimana drammatica: meno di cento ore dopo la rinuncia di papa Benedetto XVI, cinque cardinali hanno concordemente eseguito la volontà del pontefice di chiudere una delle parentesi più scottanti dell’ultimo anno in Vaticano. Le dimissioni di Ettore Gotti Tedeschi, lo scorso maggio, avevano reso manifesta in tutta la sua virulenza la crisi della Curia, che nei mesi successivi si sarebbe solo aggravata sotto i fari della comunità dei fedeli e dei media globali.
Venerdì la commissione cardinalizia dello Ior era personalmente presieduta dal segretario di Stato, Tarcisio Bertone, e comprendeva anche Attilio Nicora (tuttora capo dell’Aif, nuova authority finanziaria della Santa Sede) e il francese Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio consiglio interreligioso: tre porpore (soprattutto le due italiane) che non è mistero siano state via via divise dalle fratture apertesi nella Santa Sede. I tre – assieme al brasiliano e Scherer all’indiano Toppo – sono riusciti a procedere a una nomina più volte rinviata proprio per i contrasti e hanno aderito al favore del Papa per il tedesco Ernest von Freyberg.
La scelta non è infatti ricaduta sul candidato quasi certamente preferito da Bertone (il belga Bernard de Corte), né su quello probabilmente gradito da Nicora (il notaio torinese Antonio Maria Marocco, consigliere in carica dello Ior, da poco presidente della Fondazione Crt e da sempre in rapporti con l’ex segretario di stato Angelo Sodano). Se il rimpasto ai vertici Ior è quindi – per certi versi – il primissimo momento di quella “rifondazione vaticana” che Ratzinger ha invocato con un gesto scioccante, la problematicità dell’eterno “caso Ior” all’interno della crisi della “governance” ecclesiale rimane tutta.
Il nuovo presidente ha molti numeri nel suo curriculum di partenza: è un avvocato d’affari dalle solide referenze in Germania, con esperienze negli Usa e a Londra (e il fatto che ricopra la carica di presidente in un’importante gruppo navale di Amburgo non è affatto un handicap, anzi). Di più, von Freyberg è il tesoriere del ramo tedesco del Sovrano Militare Ordine di Malta (Smom): una realtà ecclesiale che ha festeggiato proprio in questi giorni in San Pietro con il Papa i 900 anni. Un’organizzazione che nelle sue strutture ha sempre rispettato le originarie radici crociate: ospedaliere e militari, laiche e consacrate. Un ordine, quello dei Cavalieri di Malta, che negli ultimi decenni non è stato sicuramente affetto dal protagonismo di altre realtà ecclesiali, laiche o religiose.
E ciò nonostante lo Smom abbia le prerogative di uno Stato: è osservatore all’Onu, ha sedi extraterritoriali, emette passaporti, mantiene formalmente una propria moneta. Assomiglia quindi moltissimo alla stessa Santa Sede, anche nel detenere un patrimonio ingente. Ma il Vaticano – oltre agli asset finanziari e immobiliari amministrati dall’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica (Apsa) – ha anche una vera e propria banca: che in poco più di ottant’anni di vita è sembrata dare più problemi che soddisfazioni: certamente al romano pontefice.
Superfluo ricordare i danni creati dallo Ior nel crac Ambrosiano: 250 miliardi di risarcimenti per le improvvide lettere di “patronage” rilasciate dall’arcivescovo Paul Marcinkus; ma soprattutto una lesione grave dell’immagine per le compromissioni evidenti con una finanza più grigia che bianca, come ad esempio quella orchestrata da Michele Sindona fra Italia e America. Trent’anni dopo – avvicendatisi due presidenti italiani laici (Angelo Caloia e Gotti Tedeschi) – lo Ior non sembra essere ancora guarito da questa malattia: scarsa trasparenza su una gestione che suscita interrogativi rispetto agli standard bancari internazionali (che pure la crisi globale ha messo in pesante discussione). E dal Torrione di Nicolò V luci oblique continuano a irradiarsi dentro e fuori le mura leonine: inquinando rapporti fra gli organi dello “Stato del Papa” e la sua immagine istituzionale all’esterno.
È stato così che la magistratura italiana ha messo sotto inchiesta alcuni flussi sospetti transitati attraverso lo Ior e i collegamenti sistematici con le ultime indagini a raffica su presunte tangenti in grandi gruppi italiani (Mps, Finmeccanica, Eni). Sull’altro versante, la pressione della ri-regolazione finanziaria internazionale post-crisi ha raggiunto anche la Santa Sede: che deve tuttora riconquistarsi appieno la “lista bianca” Ocse degli Stati del tutto a posto sul piano delle normative anti-riciclaggio. Ed è stato questo passaggio ad acuire le tensioni ad esempio fra Bertone e Nicora: il secondo più nettamente a favore di un’uscita delle finanze vaticane da una singolarità di regime che periodicamente si trasforma in una “terra di nessuno” pericolosa anzitutto per la Chiesa.
Dall’Ambrosiano alla “crisi papale” del 2013, senza precedenti, la riflessione sul problema-Ior rimane comunque immutata e in sé abbastanza semplice: il Vaticano ha bisogno di una banca? E di quale banca? La storia dice che la sovranità di uno Stato moderno si esprime anche attraverso la moneta e che la circolazione di quest’ultima viene regolata da una “banca centrale”. Nel XXI secolo, in ogni caso, l’Europa – cui il Vaticano almeno geograficamente appartiene – si è data una moneta sovranazionale con una banca centrale unica per 17 paesi. E attorno a San Pietro c’è uno Stato quasi virtuale: i suoi residenti e i suoi enti utilizzano correntemente l’euro e l’“economia vaticana” è completamente indipendente da dinamiche monetarie, valutarie, creditizie. Non ci sono Pil e interscambio commerciale, non ci sono “flussi d’investimento” in senso stretto, non ci sono attività d’impresa che – nel caso – possono comunque trovare credito presso le filiali delle banche italiane che circondano il Vaticano.
Il bilancio vaticano – che in realtà miscela “Santa Sede” e “Chiesa” non senza qualche insidia – ha comunque un bilancio, negli ultimi anni spesso in rosso per non più di qualche milione di euro. Le entrate operative sono essenzialmente i ricavi turistici. Ma il Vaticano e il suo pontefice possono contare anche sugli introiti dell’Apsa (il vero patrimonio del Papa) e sulle offerte: come ad esempio l’obolo di san Pietro che viene raccolto in tutte le chiese del mondo; oppure le donazioni private, come quelle degli stessi grandi ordini. Non è illogico pensare – come fece Pio XII nel 1942 – a un ente bancario che faccia da piattaforma tecnica a questi flussi ed è comprensibile che uno Stato sovrano pretenda di operare con una banca propria, non soggetta ad altre regole o vigilanze.
Certo, il circuito intermediario che tutti hanno in mente per “la banca del Papa” è questo: un’offerta depositata sul conto della Propaganda Fide alimenta un bonifico a una missione nel Ruanda. Oppure: un’efficiente gestione di tesoreria dello Ior genera degli utili (come di fatto avviene per alcune decine di milioni all’anno) che sostengono il budget della Santa Sede. Diverse sono altre situazioni, vere o anche soltanto presunte da magistrati e “media”. Caso esemplare è la sistematica visione dello Ior come sospetto parcheggio di flussi finanziari anomali in casi della recentissima cronaca politico-finanziaria italiana: Mps, Finmeccanica, Eni. Ma anche nel caso dello Ior sarebbe riduttivo andare a caccia di “mariuoli” (o di “corvi”): nella sua storia la banca vaticana ha giocato su scacchieri molto più vasti e complessi.
Il supporto dato dalla Santa Sede a Solidarnosc dall’estate 1980 è forse l’esempio più eclatante (tra l’altro al centro degli intrecci sempre più stretti e alla fine letali fra Ior e Ambrosiano). È evidente che su questi livelli le cifre e lo spessore dell’operatività Ior sono ben diversi, anche se pienamente inseriti nella diplomazia della Santa Sede. Ed è naturale che un Vaticano bisognoso di mezzi – in via ordinaria o straordinaria – tende a mettere sotto pressione la sua banca: la quale, in un mondo finanziario globalizzato è già di per sé a rischio crescente di ritrovarsi attraversato da quello che il Fmi ha ribattezzato “shadow banking”, dichiarandogli guerra. E cosa c’è di più appetibile di una banca “non vigilata” ma facilmente raggiungibile attraverso confini virtuali da un Paese come l’Italia, completamente “onshore”? È il presupposto dell’inchiesta della magistratura italiana che da oltre un anno indaga su 23 milioni sospetti di riciclaggio presso lo Ior. È l’origine di tanti stress finali per Papa Ratzinger, che pure aveva meditato la rinuncia indipendentemente dal caso Ior.
Il nuovo presidente dello Istituto – con il nuovo Papa – difficilmente potranno portare la Santa Sede e le sue finanze fuori dal Mar Rosso dei primi anni Duemila semplicemente lasciando cadere i polveroni. Tradirebbero la radicalità dell’abbandono di Benedetto XVI: il cui appello al “rinnovamento della Chiesa”, in teoria, toglie qualsiasi ipoteca sul futuro della stessa Santa Sede. Anche – in prospettiva – il cambiamento del suo regime di Stato. Certamente, al suo interno, una profonda rivisitazione dello status della sua banca: senza dimenticare che il moderno banking europeo fu inventato dai banchi di pegno dei francescani per combattere l’usura.