ELEZIONI 2013. Uno degli esiti meno augurabili del voto sarebbe che la “questione bancaria” venisse affrontata dal nuovo governo – qualunque esca dalle urne – così come è stata maneggiata in campagna elettorale. Il caso Montepaschi ha polarizzato male un confronto sulla politica creditizia che, peraltro, avrebbe assai faticato a imporsi, anche al quinto anno della grande crisi. L’affaire Mps è stato comunque esemplare degli attuali standard civili del Paese: una vicenda della massima serietà – la crisi di una grande banca e della Fondazione proprietaria – è stata lasciata al consueto pasto nazionale di magistratura e “media” in tempi ultrasospetti. E conta fino a un certo punto che, dal ventilatore senese, i fanghi politici siano sembrati orientati soprattutto contro il Pd, in misura minore a danno del Pdl e di Mario Monti (quest’ultimo premier uscente del “governo dei banchieri”).
Certo, male non ha fatto al grillismo montante, che ottenne il suo battesimo del fuoco nelle piazze inferocite dei risparmiatori traditi da Parmalat. Ma proprio il Movimento 5 Stelle è il primo ad aver populisticamente confuso cause con effetti: il colpevole è sempre il banchiere dell’angolo. È così che, curiosamente, la ricetta di Beppe Grillo non è troppo diversa, nelle sue prospettive ultime, da quella dell’oligopolio bancario globale che il suo movimento in teoria avversa: sono le banche (locali) italiane che vanno rase al suolo; sono le Fondazioni loro azioniste che vanno distrutte. Ma è la stessa “battaglia di civiltà” che nel 2005 la City, il suo portavoce Financial Times e la Ue anglo-olandese condussero per strappare all’Italia quella stessa Antonveneta che due anni dopo era già “restituita” a Montepaschi con congruo ricarico.
Del resto il comico ligure ha più volte cavalcato anche il palcoscenico dell’assemblea Telecom: sia a guida Tronchetti Provera, sia a guida bancaria, con Franco Bernabé presidente. In sé scontate le polemiche contro una ex azienda-Paese che non riesce a “creare valore” né per gli azionisti, né per il Paese : ma dove abitano i veri “lor signori” che hanno organizzato la “madre di tutte le Opa”? In Italia? Politicamente è facile prendersela a posteriori con i Ds di Massimo D’Alema che avallarono l’Opa di Colannino. Finanziariamente è legittimo deplorare gli Agnelli che pretendevano di governare Telecom con lo 0,6%. Socialmente non è fuori luogo indicare in Tronchetti Provera un “capitalista senza capitali”, per di più poco convincente come manager. Ed economicamente può essere perfino corretto accusare le banche di impegnare i propri quattrini più per puntellare Telecom che per fare credito alle imprese italiane. Sono tutte “lezioni” che, magari nello stesso consiglio Telecom, ripete alla noia il guru Luigi Zingales: e – diversamente da Grillo – lo pagano pure molte decine di migliaia di euro all’anno per venire da Chicago a fare lo schizzinoso “signor no” nel board di un’azienda spolpata da Wall Street e resa innocua alla concorrenza internazionale. Ma non è un caso che il ruolo di Zingales in campagna elettorale sia stato quello di “suicidare” la già minima candidatura di Oscar Giannino (un mini-Zingales è stato candidato dalla Provincia di Milano alla nuova Ccb della Fondazione Cariplo: è l’opinion-maker Alberto Mingardi, delfino di Giannino).
Dal nuovo Governo ci si attende che parli d’altro, in modo più serio. Banche e Fondazioni restano l’infrastruttura finanziaria dell’Azienda-Italia: è un fatto in sé. Potrà non piacere ad alcuni, ma sarebbe ora che spiegassero perché un quarto di secolo dopo il Big Bang globale, l’Italia non ha più una Borsa e i due ultimi leader confindustriali erano capi di gruppi programmaticamente non quotati. È un fatto invece che il sistema-Paese ha cacciato (e condannato) un governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio che voleva che AntonVeneta e Bnl rimanessero banche italiane e ha lasciato che fossero vendute a colossi esteri (ma l’Abn Amro era già quasi fallita). Il suo successore, d’altronde, ha rivendicato anche in questi giorni di aver dato via libera alla riacquisizione dell’AntonVeneta da parte del Montepaschi: operazione che si è rivelata due volte sbagliata (per il debito eccessivo imposto alla banca e alla stessa Fondazione Mps, che oggi il presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, è costretto a isolare come “mela marcia”). Adesso qualcuno (anche Mediobanca) vorrebbe “salvare” Mps consegnandolo alla Bnl, cioè alla francese Bnp.
La stessa Banca d’Italia di Mario Draghi, già vicepresidente europeo della Goldman Sachs e ora presidente della Bce, ha fatto terra bruciata della governance cooperativa della Popolare di Milano, certamente inquinata dall’auto-governo sindacale dei dipendenti: ma quella stessa banca è stata affidata – a buon mercato – a due hedge-fund e proprio nei giorni della campagna elettorale la Bpm è stata virtualmente messa all’asta, con il progetto di trasformazione in Spa e di contendibilità in Borsa.
Nel frattempo a ogni round di “ri-regolazione” in Europa, tutto gioca sistematicamente contro le banche italiane: per Basilea 3, cento mutui da un milione concessi da una Popolare italiana a famiglie e aziende italiane sono più rischiosi di un derivato da cento milioni in bilancio alla Deutsche Bank. La Cassa depositi e prestiti – grazie a un dialogo fra le Fondazioni e il Tesoro (prima Giulio Tremonti, poi Mario Monti) – si è data una fisionomia di banca statale di sviluppo, ma ha infiniti nemici. Che però, in alcuni casi, sono coloro che hanno suggerito al candidato “liberal” per la Regione Lombardia, Umberto Ambrosoli, di costruire una “banca regionale di sviluppo”, che forse c’è addirittura già (è il vecchio Mediocredito lombardo, nascosto dentro Intesa Sanpaolo: la banca delle Fondazioni, parecchio detestata dai commentatori “liberal”. Preferiscono UniCredit dove le Fondazioni sono sotto pressione da parte di presidente “italo-tedesco”, fondi sovrani islamici e investitori russi. Un’altra storia: ma anche di questa bisognerà tornare a parlare).