Papa Francesco si accinge a riformare in profondità la Chiesa e la sua Curia, ma intanto difende la sua istituzione e motiva la sua gente anzitutto con l’esempio personale: molti dei cardinali che l’hanno eletto stanno già sostituendo come lui la croce d’oro con una di ferro, e c’è da credere che non sarà solo una concessione-spot ai media. È ancora dubbio che papa Bergoglio vorrà un segretario personale e che occuperà per intero l’appartamento rinascimentale nel palazzo apostolico. Ai molti che – nonostante tutto – hanno riempito la sua piazza, il nuovo pontefice non ha offerto e non offrirà roghi, anzi: negli ultimi due giorni ha citato per nome il valore di due suoi colleghi nel sacro collegio (Hummes e Kasper). Né deve essergli dispiaciuta l’azione “di sistema” degli undici cardinali statunitensi, confluiti a Roma per il conclave.



Dopo anni terribili per la Chiesa Usa – per la sua coesione interna, per la sua immagine, non da ultimo per le sue finanze – i suoi leader hanno voluto comunicare in Vaticano un’unità orgogliosa: tutti ospiti dello stesso “college” a Roma, tutti assieme in “car pooling” alle congregazioni, tutti di turno ai “media briefing” che sono subito entrati nella micro-storia del conclave 2013, quasi sicuramente orientandone l’esito. Messaggio: una grave crisi si supera assieme, sorreggendosi e incoraggiandosi; non dividendosi fra accuse romane per gli scandali sessuali anglosassoni e contro-accuse alla Santa Sede per Vatileaks. Se c’è una crisi di fiducia interna ed esterna – è stata la lezione della svolta in Vaticano – la si rimargina con un mix di cambiamenti radicali (e Benedetto XVI lo ha deciso su se stesso), di trasparenza, di impegno concentrato sulle proprie risorse migliori (la preparazione e l’esito del conclave ne sono stati testimonianza serrata).



Le banche italiane – che nella tradizione nazionale sono spesso affacciate sulle piazze e antistanti le chiese – sono oggetto di attacchi incendiari degli “squatters” al sabato, mentre apre i battenti un Parlamento di cui una nuova forza politica entra in forze sulla scia di un successo inatteso, costruito non poco sulla collera “anti-bancaria”. Già nei giorni precedenti, comunque, erano state colpite dal “fuoco amico” della Banca d’Italia.

L’ennesima circolare del Governatore Ignazio Visco – al di là dell’aver creato incertezze tecniche nei giorni di chiusura dei bilanci 2012 – ha anzitutto preso di mira il più populistico ma in fondo il meno importante degli aspetti critici della gestione: i compensi dei vertici, i “bonus”. La “questione bancaria” in Italia non è – o non è in prima battuta – se i presidenti e gli amministratori delegati sono pagati “troppo”: lo è assai di più altrove, dove però i banchieri continuano ad arricchirsi e i vigilanti sanno che i moralismi demagogici riducono ancora di più la loro credibilità già compromessa.



La “questione bancaria” in Italia è che le banche danno poco credito alle imprese. Il credito è – o appare – “razionato” per molte ragioni. Fra queste le sofferenze: i crediti non rimborsati da aziende e famiglie colpite dalla recessione. Oppure: perché le banche si sono fatte carico – durante la crisi speculativa del debito pubblico – di sottoscrivere Bot e Btp. Oppure ancora: perché la crisi bancaria globale è tuttora in corso e la liquidità è ancora merce rara, non si può più largheggiare nel concedere prestiti, ma anzi è bene essere più prudenti. Infine: perché lo sviluppo della ri-regolamentazione (“Basilea 3”) impone alle banche di irrobustire i propri presidi patrimoniali.

Su quest’ultimo versante le banche italiane non si stancano da due anni di denunciare la loro specifica “sofferenza”: un’elaborazione discriminante delle regole internazionali (il maxi-derivato tedesco considerato meno rischioso di cento mutui dati da una Popolare in Italia) e un’adozione interna sempre zelantissima da parte di authority nazionale che fanno fatica a nascondere una sostanziale sudditanza. E il fatto che il candidato – poi eletto – alla presidenza della Bce fosse italiano non ha certo aiutato, anzi. Lo si è visto anche nell’ultimissima circolare, che ha imposto ai bilanci delle banche italiane standard più stretti per la copertura dei crediti dubbi.

Ancora una volta è giunta una lettera a Roma (poco importa se da Francoforte o da Washington) e Palazzo Koch ha burocraticamente dato seguito immediato: nonostante stia diventando corale – nell’Azienda-Paese – la richiesta di una gestione più meditata dell’euro-austerity, che la stessa Ue sta dando segni di voler ripensare. Un anno e mezzo dopo uno stress test Eba tanto draconiano quanto beffardo (con lo spread ai massimi) ci risiamo: allora si trattava di portare al 9% il core-tier 1 patrimoniale, ora il 45% della copertura dei crediti. Esito: conti in rosso, “banche in crisi”, “i banchieri si sono rubati tutto”, cedole magre o nulle, titoli giù in Borsa, “ma sì, vendiamole queste Popolari, fuori le Fondazioni da Intesa e UniCredit, meglio gli hedge fund, ecc.”. E non da ultimo, con il Movimento 5 Stelle oltre il 20% in Parlamento.

Una Banca d’Italia degna della sua tradizione affronterebbe i problemi reali del suo sistema vigilato (ancora per un po’): anche quelli che spetterebbero alla politica (con buona pace degli economisti anti-politici di professione). Difenderebbe la “par condicio” delle banche italiane nelle sedi dove si decidono le regole del gioco, formali e sostanziali. Applicherebbe le regole in Italia con tutto il realismo possibile. Chiederebbe al Parlamento regole che rafforzino, non indeboliscano il grande e piccolo credito cooperativo. Promuoverebbe fusioni, scorpori, razionalizzazioni (a cominciare dal Monte dei Paschi, senza rimanere subalterna alla magistratura): avendo il coraggio di riconoscere – sarebbe sufficiente negli atti – che il sistema creditizio era e resta troppo importante per essere lasciato al mercato.

Solo così, tra l’altro, sarà possibile giustificare che la supervisione su quel sistema (su una parte) resti affidato a una banca centrale, sempre col classico dubbio che la guerra non debba mai essere lasciata interamente ai generali.