Si dice che il segretario di Stato uscente, cardinale Tarcisio Bertone, voglia cambiare velocemente status allo Ior: non più istituto dipendente dalla Santa sede ma dal Governatorato della Città del Vaticano. Dettagli non ne sono filtrati – forse non ci sono ancora – ma la finalità immediata è intuibile: smussare lo “scoglio Ior” ai fini del complicato ingresso finale della Santa sede nella “lista bianca” dei paesi allineati con gli standard internazionali Ocse per la lotta al riciclaggio. Par di capire che spostando la titolarità dello Ior dallo “Stato” del Papa all’unica “città” ospitata nel territorio vaticano, la segreteria di Stato punta a “derubricare” alcune richieste di Moneyval (l’agenzia antiriciclaggio dell’Ocse) .



È presto per pesare la consistenza del progetto, che secondo alcuni osservatori non supererebbe quella di un’operazione affrettata e posticcia di ingegneria istituzionale. L’obiettivo sarebbe duplice: salvare con uno scatto finale sul terreno finanziario l’immagine compromessa dell’“amministrazione uscente” nel Palazzo Apostolico; e porre lo Ior al riparo da ristrutturazioni ravvicinate e pesanti che sono state invocate a gran voce da molti partecipanti al Conclave che ha eletto Papa Francesco e che trovano naturale sponda nei problematici report di Moneyval . Né può essere dimenticato che il Governatorato è oggi affidato – pro tempore, come per tutti gli incarichi in Curia – al cardinale Giuseppe Bertello, considerato un fedelissimo piemontese di Bertone.

L’impressione non è dunque troppo diversa da quella suscitata – appena un mese fa, a dimissioni di papa Ratzinger già annunciate – dalla nomina di un nuovo presidente per l’Istituto, il tedesco Ernest von Freyberg: nove mesi dopo la traumatica rimozione di Ettore Gotti Tedeschi.

È stato allora che, in queste note, abbiamo provato a svolgere qualche riflessione sul modello dello Ior: che soffre chiaramente di tutte le debolezze e i rischi di un conglomerato privo di una strategia chiara e quindi di un’organizzazione coerente. L’ipotesi di trasformarlo in una “banca di città” non è priva di “fondamentali”, tutt’altro: basta guardare la classificazione dei 33mila conti effettuata dalla stessa Moneyval. Sono numerosi quelli intestati ai dicasteri e agli altri uffici della Santa Sede e ai dipendenti. Non da ultimo ci sono i conti della “famiglia pontificia”: il Papa, quotidianamente, riceve e dispone offerte in denaro. Se un piccolo comune italiano (o francese, o americano, o argentino o australiano) può dotarsi di una “sua” banca attraverso l’iniziativa cooperativa di poche centinaia di residenti, perché non può farlo la città del Papa, capitale di un mini-stato sovrano?

Una banca nasce per gestire i pagamenti (grandi o piccoli) di un sistema, per aggregare gli avanzi finanziari (i “risparmi” e i “capitali” che vi si formano) e per intermediarli sotto forma di credito o investimento. Una banca di credito cooperativo classica (così come una vecchia “cassa di risparmio”) questo faceva: raccolta di risparmio, credito locale, reinvestimento della liquidità in eccesso a rischio controllato (titoli di Stato o mercato interbancario). 

È quello che fanno tuttora, ad esempio, le oltre 400 Bcc italiane, cercando di tener vivo lo scopo mutualistico (“etico”) delle loro radici storiche: tutelare l’integrità dei risparmio, garantire loro una remunerazione sostenibile, agevolare l’accesso al credito di soggetti più fragili, il tutto mantenendo l’efficienza aziendale della banca. È, in fondo, quanto prescrive ancora lo statuto corrente dello Ior: «Provvedere alla custodia e all’amministrazione dei beni mobili e immobili trasferiti o affidati allo Ior medesimo da persone fisiche o giuridiche e destinati a opere di religione e carità».

Per le Bcc, come per lo Ior, i problemi nascono invariabilmente quando qualcuno, dentro o fuori la banca, scopre quali sono i vantaggi di “avere una banca”. Fra questi quello di celare fra centinaia o migliaia di micro-conti di una banca insospettabile un gigantesco deposito, magari di provenienza illecita. Di riflesso, proprio quella raccolta “estranea” può favorire operazioni di finanziamento o investimento altrettanto “estranee” alla natura della banca: quando addirittura – in operazioni rischiose se non illecite – non vi viene impegnato direttamente il risparmio dei piccoli clienti. È accaduto a una Bcc toscana (il Credito cooperativo fiorentino), è probabilmente accaduto anche allo Ior: questo è almeno la convinzione della Procura di Roma. E la magistratura italiana bussa nuovamente al portone del Torrione Niccolò V vent’anni dopo il crac Enimont, trent’anni dopo il dissesto dell’Ambrosiano, quando comunque la cronaca giudiziario-finanziaria non ha quasi mai cessato di occuparsi dell’Istituto fondato appena settant’anni fa da Pio XII.

Se applicato in termini effettivi e rigorosamente, il progetto “banca di città” può ragionevolmente superare decenni di anomalie e di scandali: anche al livello super-impegnativo di “città globale” com’è la Chiesa. La sfida si annuncia comunque all’altezza di quella pastorale e macro-ecclesiale delineata dal nuovo pontefice: “Una Chiesa povera per i poveri”.

Il credito cooperativo e la finanza etica nascono nella povertà per la povertà e in concreto nulla vieta al “nuovo Ior” di amministrare per via bancaria i mezzi finanziari di un convento polacco sostenendo un progetto di micro-credito in una diocesi asiatica: in una delle tante “periferie” del mondo e dell’esistenza costantemente indicate da papa Francesco come orizzonte della sua Chiesa. Una riforma dello Ior in questa direzione potrebbe essere simbolicamente strumentale alla più ampia riforma prospettata per la Curia: quanti sono oggi gli enti della Santa sede – o della Chiesa – che prediligono lo Ior per motivazioni simili a quelle che spingono finanzieri spregiudicati a varcare il confine di cartone delle mura leonine?

Il “nuovo Ior” potrebbe escludere clientela indesiderata, ma potrebbe essere anche la “banca obbligatoria” per molte altre entità ecclesiali, spesso e volentieri tentate da vie opposte a quella della “finanza povera”. Quel che è certo è che al papa gesuita “dell’altro mondo” non manca né l’immaginazione, né la determinazione per rimodellare la “sua” banca: e difficilmente rinuncerà al suo imperativo evangelico di dare con l’esempio “buoni consigli” a una finanza globale che certamente non ha aiutato lo Ior a restare sulla retta via.