La buona notizia – nella vendita di La 7 al gruppo Cairo – è per ora nel contenuto del progetto annunciato: una tv “old” – pesante nei costi, generalista nel palinsesto, non integrata in un gruppo che pure opera nelle tlc – viene affidata a un piccolo editore che ha dato prova di saper andare a caccia di ricavi nelle praterie selvagge e mutanti della multimedialità. Sarebbe davvero bello se tutto si rivelasse vero: se La 7 ritrovasse un suo equilibrio economico, prevedibilmente con una ricomposizione dei contenuti e dei loro costi, con una loro riproposta di marketing. E non sarebbe scandaloso se altri investitori – Diego Della Valle e/o Carlo De Benedetti e/o altri – portassero nuovi capitali a Cairo Communication; né che le “star” della rete (da Enrico Mentana a Gad Lerner allo stesso Michele Santoro) rimanessero rifissando i loro compensi come benchmark di un’industria televisiva che deve – al pari di quella della carta stampata – ridimensionare tutte le sue cifre.

Lo stipendio di un Mentana in una La 7 efficiente e competitiva diventerebbe il riferimento dei colleghi di una Rai o di una Mediaset non più competitive. E perfino l’“accollo” dei debiti da parte di una proprietà che non ha potuto/voluto far molto per il “terzo polo” avrebbe qualche parvenza di “servizio pubblico”: anche gli azionisti di Rcs, in teoria, hanno – come Telecom – la possibilità di verificare il loro fallimento come editori lasciando il terreno a nuovi investitori, possibilmente operatori industriali del settore media. E Telecom, alla fine, è da anni sotto il controllo di istituzioni finanziarie “di sistema” come Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo.

Realisticamente, il lungo sganciamento di La 7 da Telecom è sembrato tuttavia ancora figlio del passato: quello del duopolio tv strettamente agganciato alla politica. Non a caso è stato perfezionato in una fase opaca di tumultuosa “vacatio” politica: all’indomani di un esito elettorale che non elimina ma anzi complica il conflitto d’interesse del polo Fininvest e dunque allontana ancora la prospettiva di un razionale riordino liberalizzatorio del mercato dei “media” in Italia. Come sarà possibile – per Cairo, per i suoi soci o per chiunque altro – misurarsi ad armi pari sul piano delle economie di scala e dell’accesso alle risorse pubblicitarie ed editoriali ancora con una sola rete, su un mercato ancora asimmetrico su molte dimensioni?

“Mi sono preso una patata bollente”, ha commentato ieri il patron del Torino calcio. Se il suo ruolo è quello di pagare ingaggi ad anchormen televisivi così come alcuni grandi club fanno ancora con calciatori, il debito che TiMedia gli sta “generosamente” condonando – a dispetto dei suoi già maltrattati azionisti – è destinato a riformarsi presto. E i “media” italiani a riavvitarsi ancora di più verso un passato in cui il giornalismo era un “costo della politica” e non un’attività professionale e d’impresa che – al pari di tutte le altre – cerca di contribuire alla civiltà democratica.