Quando nell’ottobre del 2011 la Banca Popolare di Milano stava maturando la sua svolta con l’avvento di Andrea Bonomi, su queste pagine pubblicammo una piccola nota contenente “cinque (cattivi) pensieri”. Ora la banca di Piazza Meda sta accelerando verso la trasformazione in Spa – ancora fra strappi e polemiche – ritentiamo l’esercizio, alla vigilia dell’assemblea di domani.

1 – Aver creato le condizioni perché alla guida della “nuova Bpm” ci fosse un finanziere professionale, operatore di private equity su scala globale, ha aperto fin dapprincipio prospettive inequivocabili. Inutile che i dipendenti-soci ex-sindacalizzati si straccino le vesti a posteriori, al di là della tattica pre-assembleare. Il neo-presidente del consiglio di gestione Bonomi, il suo partner italo-americano Raffaele Mincione e gli investitori a loro associati detengono oggi il 16% della Popolare, dopo avervi puntato almeno un paio di centinaia di milioni. Oggi è logico che vogliano trarne le conseguenze con le loro regole del gioco: 18 mesi sono un orizzonte classico per un’operazione di private equity; almeno perché un investimento dimostri almeno di essere ben instradato.

E se la pulizia dei conti della Bpm è ancora a mezza strada, il primo “rendimento” che Bonomi cerca è nella governance, dopo l’allontanamento dei dipendenti-soci della gestione, con l’introduzione del sistema duale. La trasformazione in Spa pone ora le premesse per operazioni strategiche (vendita o fusione della Bpm) che possono non essere immediate, ma certamente sono più probabili: una volta abbattuto lo storico ordinamento cooperativo (una testa, un voto) un’Opa su una Popolare diventa concretamente realizzabile e il passaggio di modello, fra l’altro, produrrebbe quasi sicuramente un rialzo del titolo al listino, legato all’emersione del valore-contendibilità. Il primo pensiero, in ogni caso, si stacca poco dall’ovvietà: non si può accusare Bonomi di aver tradito alcun accordo o mandato; è tardi per chiedergli o imporgli di continuare a fare l’azionista di controllo e presidente operativo all’infinito senza poter valorizzare il suo investimento.

2 – Bonomi, d’altronde, non può pretendere di piegare ulteriormente lo status di soci che hanno tuttora i dipendenti Bpm. E sarebbe un errore se la Banca d’Italia spingesse ulteriormente in avanti la ruvida “moral suasion” che pure nel 2011 ruppe un viluppo divenuto patologico fra azionariato, organi sociali, strutture manageriali, dipendenti e rappresentanze sindacali. Un intervento – quello della Vigilanza ancora guidata da Anna Maria Tarantola – allora tutt’altro che forzato: la gestione della Bpm era divenuta davvero opinabile ai fini della stabilità dell’istituto (si trattasse della scelta dei dirigenti, della concessione dei crediti, dei comportamenti del presidente Massimo Ponzellini). Ma una volta introdotto il duale, cambiato sostanzialmente l’assetto di controllo e chiamato un nuovo amministratore delegato (Piero Montani), il dipendente-socio Bpm non può essere ulteriormente ridotto e neutralizzato.

Non ha torto Bonomi a chiedere il voto telematico per rendere il più effettiva possibile la partecipazione alle assemblee. Ha ragione nel far valere le sue ragioni: come ha fatto con una lettera-appello ai dipendenti-soci; oppure dietro le clamorose e polemiche dimissioni di Filippo Annunziata, Presidente del consiglio di sorveglianza (l’organo dove sono rappresentati tutti i soci). Però l’esito dell’assemblea non può essere scontato, ultimativo, obbligato. L’assemblea è sovrana: decidono i soci, tutti uguali con le regole attuali. Come nell’autunno 2011.

3 – Siamo giunti, forse troppo lentamente, al ruolo della Banca d’Italia: sempre decisivo nel caso Bpm. Decisivo quando, già vent’anni fa, non sostenne il tentativo del presidente Francesco Cesarini di cambiare gli equilibri all’interno della governance esistente. Decisivo quando intervenne con ampio ritardo nel troncare l’era-Ponzellini: esattamente come ha fatto con il Montepaschi. Decisivo nel favorire l’ingresso di un operatore di private equity, ancorché milanese e di cognome italiano: ultima impronta, tre anni dopo il crac di Lehman Brothers, della Bankitalia di Mario Draghi, ideologicamente convinta che la finanza di mercato dovesse scalzare la finanza bancocentrica, e che fra le banche le Popolari fossero in cima alla “lista nera”.

Ora la Banca d’Italia pare voglia essere decisiva anche nell’end-game, nella “fine della storia Bpm”. Sarebbe grave se si limitasse ad appoggiare – ampiamente fuori tempo – il gioco concepito da Draghi e da Tarantola, entrambi ormai fuori da Via Nazionale. Sarebbe deludente se, nel 2013, Palazzo Koch certificasse in via notarile un’operazione speculativa su una della prime dieci banche italiane, aprendo la strada della “Spa forzata” e quindi del rischio scalata per altri pezzi importanti del sistema: Banco Popolare, Ubi, Emilia Romagna, Sondrio, Valtellinese.

4 – Resta in ogni caso assodato che in un’economia di mercato – vera e sana – il destino di un’azienda si gioca sul mercato stesso. Quella di Bonomi (Spa e “chiamata dell’Opa”, magari da un gruppo estero) è una linea strategica chiara e coerente, ancorché possa non piacere. Chiunque volesse contrastarla non potrebbe che opporvi un progetto alternativo. Su queste pagine abbiamo già prospettato l’ipotesi che la Bpm possa essere posta al centro di operazioni di sistema in un riassetto del settore bancario che è già in parte nelle cose dopo il crollo di Montepaschi e la debolezza di tutti i bilanci 2012.

I dipendenti-soci Bpm, pochi anni fa, si sono già trovati a decidere su un progetto di fusione “fra pari”, mantenendo la forma cooperativa: con la Popolare dell’Emilia Romagna. Dissero di no, e confermarono di meritare la successiva strigliata della Banca d’Italia. Oggi possono però riprendere l’iniziativa: il modo migliore – ma forse l’unico – per contrastare il piano Spa di Bonomi è quello di riassumersi in pieno il loro ruolo proprio di azionisti e immaginare un futuro diverso per la loro banca.