Dietro e dentro l’apparente paralisi congiunturale l’Azienda-Italia è in movimento strutturale: a cominciare dal settore bancario, apparentemente il più paralizzato di tutti. Il conto ultimo della crisi – la selezione fra sommersi, salvati e sopravvissuti in proprio – in Italia sta per essere stilato ora: più di quattro anni dopo il fallimento-spartiacque di Lehman Brothers. Mps viene “para-nazionalizzato” più di cinque anni dopo il default virtuale dell’olandese Abn Amro, che l’oligopolio bancario travestito da mercato cercò di risolvere ancora alla sua maniera, con una maxi-Opa “di carta” da parte della britannica Royal Bank of Scotland (poi crollata e tuttora nazionalizzata), della belga-olandese Fortis (fallita, nazionalizzata, smembrata) e dello spagnolo Santander, che fu lestissimo nel rigirare subito al sistema-Italia l’AntonVeneta. Fu proprio Mps a ricomprare a prezzo pienissimo e per cassa (comprese tutte le “commissioni” su cui sta indagando la magistratura) la banca che appena due anni prima era stata strappata allo stesso sistema bancario italiano dopo una guerra sanguinosa.



E giusto alla vigilia di Pasqua, le brevi di cronaca hanno riportato le motivazioni della condanna definitiva in Cassazione dell’allora Governatore Bankitalia, Antonio Fazio: confermato – al termine di una lunga vicenda giudiziaria – nel ruolo di “regista occulto” della controscalata organizzata nel 2005 dalla Popolare Italiana di Gianpiero Fiorani. Ma come sarebbe andata a finire se su AntonVeneta avessero vinto Fazio e Fiorani e non Abn Amro, se avessero perso i commissari Ue anglo-olandesi, la magistratura italiana, i media “di mercato”?



Il “gioco dei se” non può essere relegato nella memorialistica recriminatoria nei giorni in cui il Montepaschi archivia i suoi primi 540 anni e decide i prossimi; in cui la Popolare di Milano svolta verso il modello Spa; in cui ripartono gli attacchi para-accademici versi le Fondazioni e la “loro” banca, Intesa Sanpaolo. E il “gioco dei se” continua ad avere lo stesso croupier: la Banca d’Italia. È stata via Nazionale (governatore Mario Draghi, vicedirettore generale “vigilante” Anna Maria Tarantola, oggi entrambi promossi ai vertici di Bce e Rai) a spingere due anni fa per un cambio radicale di struttura proprietaria e governance alla Popolare di Milano.



Una partita aperta da molti anni: iniziata con il semi-crac di metà anni ‘90 (quando la Bpm fu coinvolta nel dissesto Ferruzzi) e finita con tutte le operazioni anomale condotte sotto la presidenza di Massimo Ponzellini: con l’invadenza permanente dei dipendenti-soci sindacalizzati, variante della “banda del 5%” che oggi viene additata come colpevole di tutti i misfatti a Siena. Nessun dubbio che la Popolare di Milano fosse e rimanesse un’anomalia. Resta il fatto che la Vigilanza (la stessa che dal 2007 si è chiusa occhi, orecchie e bocca nell’autorizzare Mps all’acquisto AntonVeneta, con tutti i derivati annessi) ha steso tappeti rossi a una coppia di finanzieri italo-globali: Andrea Bonomi (attuale presidente del consiglio di gestione in Piazza Meda) e Raffaele Mincioni.

Il primo ha investito un centinaio di milioni, il secondo ha comprato sul mercato azioni Bpm “low-cost”. Insieme hanno meno del 10% e non hanno riportato in utile il gruppo. Ma hanno già in mente di venderlo: perché la trasformazione da cooperativa in Spa della Popolare ha solo questa finalità. Nessun dubbio che un operatore di “private equity” abbia il diritto – forse anche il “dovere” – di chiudere un’operazione di investimento di rischio nei tempi e nei modi suggeriti dal “manuale del mercato”: uscire in fretta e con guadagno adeguato. Ma la Banca d’Italia (e il governo, se c’è stato e continua a esserci) hanno il diritto-dovere di consentire – in questo momento – una speculazione di private equity su un pezzo non piccolo del sistema bancario?

Un’operazione non diversa da quella condotta dai grandi gestori internazionali che attaccano lo spread italiano utilizzando risparmio italiano e il moralismo autolesionista e ipocrita dei media italiani conniventi. Un’operazione non diversa da quella condotta dalle investment bank della City e di Wall Street che prima imbastiscono una “battaglia di civiltà” (idem come sopra) contro Fazio e Fiorani, ma poi impongono a Montepaschi di ricomprarsi AntonVeneta “senza se e senza ma”.

Bpm ha bisogno di crescere dimensionalmente? Ne parlino i membri del comitato di gestione e poi il comitato di sorveglianza, ma non in chiave puramente strumentale per “chiamare” un’Opa dopo una trasformazione in Spa “in bianco”, utile solo a scardinare gratis il modello coop in tutt’Italia (Ubi, Banco Popolare, Popolare Emila; Sondrio, Creval). L’autorità di vigilanza, mai come in questa fase, può e deve dire la sua. Fazio lo fece nel decennio cruciale del riassetto bancario italiano. Fu lui a far dimagrire Montepaschi al Nord, a favorire la nascita di UniCredit e poi di Intesa, ma anche della “grande” Popolare di Verona e dell’AntonVeneta. Fu lui a bloccare l’Opa dell’UniCredit sulla Comit e a consegnarla a Intesa. Ma fu ancora lui a dare via libera a Profumo nella fusione transnazionale con Hvb. Fu sempre lui ad assegnare Bipop e il Banco di Sicilia a Capitalia nel tentativo di puntellarla; e ad appoggiare infine vanamente Bpi su Antonveneta e Unipol su Bnl.

La politica creditizia – “giusta” o “sbagliata” – c’era perché la faceva lui, avendo come punti di riferimento – “giusti” o “sbagliati” – la diffidenza per le fusioni e acquisizioni bancarie pensate in Borsa e la centralità del sistema bancario nazionale nel sistema-Paese. Draghi – chiamato dalla Goldman Sachs dopo la cacciata di Fazio – si limitò “benedire” due fusioni annunciate: UniCredit-Capitala e Intesa-Sanpaolo. Del successore di Draghi, Ignazio Visco, si ricorda finora l’assoluta sorpresa con cui si è fatto prendere dall’implosione del Montepaschi e dalla frenesia tardiva di far assaggiare il bastone della vigilanza a gruppi fondamentali per il sistema come Popolare di Spoleto e Carige. A proposito: Via Nazionale – vent’anni dopo e forse sbagliando bersaglio – sta bocciando a Spoleto il modello che Bonomi sta accreditando a Milano pur di far digerire la trasformazione in Spa ai dipendenti soci (che sarebbero chiamati a raggruppare le loro azioni in una holding, forse una Fondazione).

Bankitalia dovrebbe sentire il diritto-dovere di inserire la Bpm in un dossier strategico di ricostruzione del sistema bancario nazionale. Perché regalare Bpm a un gruppo estero a prezzo di realizzo? Lo si è già fatto con AntonVeneta (pagandone il danno due volte) e con Bnl. A proposito: Bnp vuol crescere in Italia? Vuole farlo il Credit Agricole già proprietario di CariParma? Ne parlino: ma prima con la Banca d’Italia che con il Bonomi, il “Buffet italiano” che Draghi e Tarantola hanno preferito a Matteo Arpe quando entrambi avevano già le valigie in mano (uno per la Bce, l’altra per la Rai). Mps – oggi rifinanziato per quattro miliardi dallo Stato – va ridimensionato? Invece di lasciarlo languire ai limiti dell’autolesionismo (prova né è stato il mini-crollo di ieri in Piazza Affari dopo l’ammissione che i depositi si sono assottigliati), gli si tolga AntonVeneta e – finalmente – la si usi a fini di riordino del sistema: governo e Bankitalia dimostrino razionalità, fantasia e coraggio.

Il giornalista può solo contribuire con la cronaca: pochi anni fa la Bpm di Roberto Mazzotta condusse trattative avanzate con la Bper di Fabrizio Viola (oggi ad di Mps). Allora c’erano i dipendenti soci della Milano di mezzo, oggi non più: cosa ostacola la ripresa di quel progetto? Bonomi & co. con meno del 20%? Almeno la Banca d’Italia si riservi di decidere chi deve liquidare i raider di turno: può funzionare anche il Credit mutuel, partner storico della Bpm. “Imagine”; Bper più Bpm più AntonVeneta scorporata da Mps. Cooperativa con soci forti: una banca estera (meglio se coop come l’Agricole o il Mutuel), lo Stato italiano – magari trasferendo inizialmente alla Cdp l’intervento in Monti-bond su Mps. Se a qualcuno – magari il Tito Boeri di turno – si arrossa la pelle, gli ricordiamo che Mr. Cameron è tuttora azionista all’84% di Rbs e Frau Merkel è il primo socio di Commerzbank al 25%. E né a Londra, né a Francoforte la gente assalta le banche con i bancomat bloccati: questo accade a Cipro, da sempre piazza offshore, zeppa di banche finte. In Italia qualche banca vera c’è ancora: fino a quando, governatore Visco?