Un economista liberista ma non ideologico come Alessandro Penati ha sposato su Repubblica l’idea di creare una “bad bank” a base pubblica per alleggerire il sistema creditizio italiano del carico crescente di sofferenze e altri prestiti incagliati. È il segnale (positivo) che qualcosa si sta muovendo – fra addetti ai lavori e opinione pubblica – per affrontare le pesanti problematiche congiunturali della “questione bancaria” italiana. La premessa analitica di Penati non è diversa da quella degli analisti londinesi di Mediobanca, ma nei suoi sviluppi appare priva del pregiudizio sistematico e del moralismo strumentale che ispira regolarmente le proposte di “bad bank” avanzate dalla City.

È vero che le banche italiane, nella loro larga parte, sono oggi appesantite di “bad loans” in misura sempre più critica per gli equilibri singoli e di sistema: a fine gennaio 126 miliardi di euro (+17,5% su base annua) e il totale dei crediti “deteriorati” sfiorava i 200 miliardi (quasi il 12% del portafoglio-prestiti aggregato). È vero che questi dati – e il corrispettivo “credit crunch” verso l’economia reale – non sono solo il prodotto di una dura recessione, ma anche di una dinamica di “sovrafinanziamento” della stessa economia che – prima dell’esplodere della crisi globale – ha spinto le banche italiane a erogare quantitativi di credito superiori ai volumi di raccolta. Ed è vero che se all’estero le banche hanno giocato – e spesso drammaticamente perso – sui mercati della finanza strutturata, in Italia i grandi intermediari si sono esposti soprattutto sul più tradizionale immobiliare: fosse quello dei mutui alle famiglie al 120% del valore (gonfiato) della casa acquistata; oppure dei maxi prestiti ai vari Ligresti, Zunino, Coppola, Pirelli Re. È vero infine – lo sottolinea Penati – che un’operazione verità nei bilanci 2012 certificherebbe più di una situazione di virtuale dissesto non diversa da quella evidenziata da Mps con la richiesta di Monti-bond.

Tuttavia resta vero anche che gli squilibri macro e in particolare la micidiale recessione “double dip” che ha affossato l’Azienda-Italia sono stati indotti da un corto-circuito esterno: la speculazione mirata sullo spread italiano seguita dall’austerity finanziaria imposta da Ue e Bce al governo tecnico. In secondo luogo, le banche italiane – tutte quotate – avranno sì partecipato al gioco delle bolle per sostenere i propri risultati e valori di Borsa ai livelli dei competitor internazionali, ma nessuna (salvo Mps) è fallita com’è accaduto fin dapprincipio altrove (dalla Gran Bretagna alla Spagna, dall’Olanda alla Germania). Non da ultimo, i bilanci delle banche italiane conterranno zone grigie, ma altrove – dentro l’eurozona – è spesso buio pesto: e non solo a Cipro, ma anche a nord delle Alpi, dove i derivati sono molto più di moda. Infine: in Italia – Paese di provenienza del presidente della Bce Mario Draghi – l’applicazione delle regole è sempre stata ultrasevera, ai limiti della discriminazione e senza mai potere o volontà di negoziazione con le controparti europee. In Italia le perdite su crediti possono essere fiscalmente ammortizzate ancora in 18 lunghissimi anni: in Francia e Germania quasi a discrezione.

Se ora qualcuno immagina una bad bank “di salute pubblica” per banche che somigliano sempre di più ai due marò italiani detenuti in India, non pare un indizio di umiliante resa “ai mercati” (questo lo vorrebbe Mediobanca Securities), ma un momento di politica creditizia di cui si sente il bisogno urgente assieme a tante altre politiche (il decreto sui rimborsi dei debiti della Pubblica amministrazione ne è un brandello). Sarebbe una nuova resa se si affidasse “tout court” – come ad esempio ha immaginato fin dall’inizio la Spagna – la lucrosa gestione della “discarica” a qualche “fondo avvoltoio” specializzato: fosse pure un gigante del nome di Blackrock. Chiamare in causa Bankitalia e Cdp nella costruzione e nella manovra della “bad bank” significherebbe invece da subito un tentativo di riaffermazione di sovranità e auto-responsabilizzazione economico-finanziaria.

A proposito: un governo autorevole al punto da utilizzare responsabilmente l’oro della Banca d’Italia per affrontare la fase forse cruciale dell’uscita dalla crisi sarebbe probabilmente capace di richiamare sul “Fondo bancario italiano” (così l’ha pre-battezzato Penati) anche risparmio italiano. Sarebbe il caso (in fondo auspicabile) di utilizzo di una società-veicolo e di obbligazioni collateralizzate in un contesto di trasparenza e nell’interesse di tutti i partecipanti all’operazione di “cartolarizzazione”: non solo della Lehman Brothers di turno, con gli esiti noti.