Confindustria propone un piano anti-credit cruch: generare 90 miliardi in 5 anni a favore delle imprese per canali “alternativi”. La ricetta operativa delineata dal Centro studi di Viale dell’Astronomia non sembra discostarsi troppo da quella della classica (vecchia?) “finanza di mercato”: più private equity per rafforzare la base patrimoniale (soprattutto delle piccole e medie imprese); più corporate-bond (anche “mini”, come quelli studiati dall’ex ministro Corrado Passera) per sopperire al credito che il sistema bancario – per molte e dibattute ragioni – non riesce più a erogare. Le prime reazioni sono attese per oggi, al massimo livello: in Piazza Affari il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, legge la sua Relazione annuale, davanti al neo-premier Enrico Letta, al neo-ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni e al governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco.
Non è difficile immaginare almeno un discreto plauso: bisognerà capire quanto di circostanza. La giornata annuale della Commissione di Borsa è tradizionale luogo liturgico in cui si lamenta la resistenza del bancocentrismo nel sistema finanziario italiano e si auspica l’avvento definitivo della “finanza di mercato”: quella in cui credito e capitali fluiscono direttamente da risparmiatori e investitori alle aziende, senza più strozzature intermediarie, tanto meno se le banche da rottamare sono controllate da Fondazioni o sono cooperative.
Forse negli ultimi anni l’entusiasmo si è un po’ affievolito: la Borsa italiana (che era fastidiosamente controllata dalle banche nazionali) è stata nel ceduta a furor di popolo alla “Borsa per eccellenza” – quella di Londra – che poco dopo è stata assieme a Wall Street epicentro dell’implosione dei mercati. Fin dall’insediamento, Vegas si sgola a promuovere la rifondazione di una “Borsa di Milano”, per le ragioni che ora la Confindustria fa proprie, ma senza esiti concreti. Ogni volta c’è invece chi ricorda che il boom effimero di Piazza Affari negli anni ’90 si è rivelato alla fine strumentale a privatizzazioni dagli sbocchi controversi: a cominciare da quelli della stessa Borsa Spa, per continuare con quella di Telecom (letale per un “campione nazionale” a suo tempo ricco e dinamico) e per finire con Enel (le cui azioni, nell’Ipo del 2000, furono cedute dallo Stato a centinaia di migliaia di famiglie italiane a prezzi che non furono mai più toccati). Invece le “multinazionali tascabili” – come la Mapei del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, per non parlare di marchi-Paese come la Ferrero – si sono sempre tenute a distanza dal listino. Perfino un Diego Della Valle non ha mai reso una vera “public company” la sua Tod’s e non si è mai rivolto al mercato per raccogliere mezzi per finanziare le sue iniziative strategiche: semmai ha investito in grandi banche (Comit, Bnl, UniCredit).
In ogni caso le litanie “pro finanza di mercato” – e quindi “anti-banche” – hanno padri molto più nobili di Vegas o degli economisti confindustriali. Sentite qui (e scusate in anticipo per l’eventuale noia): “I fondi raccolti dalle imprese direttamente sul mercato, sotto forma di obbligazioni o azioni quotate, rappresentano in Italia solo il 17% delle loro fonti di finanziamento, circa un quarto in meno rispetto a Francia e Germania; la quota supera il 40% negli Stati Uniti, sfiora il 50% nel Regno Unito. La dimensione della borsa, in rapporto a quella dell’economia, è nettamente inferiore alla media dei paesi avanzati. Lo sviluppo dei mercati è necessario per la crescita delle imprese, così come quest’ultima è la base su cui il primo si fonda. I mercati svolgono un ruolo cruciale nella mobilizzazione delle risorse finanziarie. Le famiglie italiane dispongono nel complesso di una ricchezza finanziaria elevata in rapporto al Prodotto interno lordo, anche rispetto agli altri maggiori paesi europei. […] Mercati finanziari più ampi, efficienti, ben regolati consentiranno di favorire l’evoluzione in corso, a beneficio delle famiglie, delle imprese, degli stessi intermediari. La quotazione in borsa segna nella vita di un’impresa l’avvio di un percorso verso una struttura finanziaria più salda, anche in vista di un salto dimensionale: con una quota più elevata di debito obbligazionario, spesso con un minor costo dello stesso credito bancario. Un mercato di borsa spesso ed efficiente consente agli operatori di private equity di cedere le proprie partecipazioni attraverso la quotazione delle imprese, con una modalità di dismissione che, oltre a tutelare maggiormente l’imprenditore dal rischio di perdere il controllo, conferisce trasparenza al processo di valutazione. Crescita degli intermediari specializzati, maggior peso degli investitori istituzionali e irrobustimento della borsa si rafforzano a vicenda”.
Non era un secolo fa, ma il 31 maggio 2006: le prime “Considerazioni finali” di Mario Draghi, chiamato in Bankitalia dalla Goldman Sachs, dopo la cacciata del Antonio Fazio, che tra i tanti suoi “difetti” aveva certamente il bancocentrismo nazionalista. Oggi proprio Draghi, nel frattempo promosso alla Bce, si sta affannando a fronteggiare l’emergenza-credito verso le imprese europee dopo che nel frattempo – proviamo a dirlo con educazione – il suo modello globalista è fallito e ha messo a dura prova anche la finanza “bancocentrica” all’italiana. Dopo che – proviamo a ridirlo con educazione – l’aver messo a fattor comune il risparmio delle famiglie italiana con la “finanza di mercato” ha portato i gestori internazionali a speculare contro lo spread italiano e quindi contro le banche italiane, con i soldi degli italiani. Dopo che – proviamo a ridirlo con educazione – le autorità bancarie sovrannazionali hanno giocato a colpi di regole contro le banche italiane – non difese da nessuno – più ancora di quanto abbiano continuato a fare a colpi di editoriali alcuni ideologi a buon mercato e in conto terzi: come quelli che in questi giorni hanno nuovamente dipinto Giuseppe Guzzetti, presidente rieletto della Fondazione Cariplo e dell’Acri, come un losco politicante. Oppure i difensori d’ufficio di Andrea Bonomi, un operatore londinese di private equity cui la Banca d’Italia ha messo in mano quasi gratis la Popolare di Milano e che oggi vorrebbe chiudere al più presto la sua speculazione su una delle prime dieci banche italiane.
Per chi scrive resta quindi un mistero il perché Confindustria – nel tenere alta l’attenzione su una vera emergenza economica nazionale come il credit crunch – abbia ripescato un simile armamentario, cavalcando l’antipolitica bancaria: dimenticando, ancora una volta, che la “finanza di mercato” (dal private equity al collocamento di titoli di ogni risma) è un business che crea valore aggiunto solo per aziende apolidi e non ha praticamente mai portato né benefici economici, né utili finanziari a imprese e famiglie italiane.
La via maestra per rilanciare il credito in Italia resta la difesa e il rafforzamento del sistema bancario che è una delle prime industrie del Paese e gestisce una grande risorsa del Paese come il suo risparmio, accumulato in passato o ancora in via di pur difficile generazione. Per risolvere la “questione bancaria”, negli ultimi anni, non è stato fatto nulla, lasciando invece spazio a tentativi di usare le pressioni della crisi finanziaria come vent’anni fa quella delle privatizzazioni: per scardinare gli assetti bancari in Italia, tuttora basati su Fondazioni e cooperazione che sono nel Dna dell’Azienda-Paese. Ed è vieppiù deludente osservare che l’obiettivo di tanta polemica culturale si riduce spesso a banali richieste di contropartita “ad aziendam” (mai comunque piccola o media): come negli ultimi giorni per Rcs o per il gruppo Pirelli, com’è stato per Fiat o Telecom. E in entrambi i casi recenti le grandi banche sono chiamate a dirimere questioni non di sviluppo ma di controllo, come nella confronto fra le famiglie Tronchetti e Malacalza o fra gli Agnelli e Della Valle al Corriere.