Era inevitabile che un passaggio delle Considerazioni finali riaprisse la “querelle” sempreverde sul modello societario delle Popolari. L’ennesima “moral suasion” del Governatore sull’opportunità di archiviare la struttura cooperativa e accelerare il passaggio alla Spa era nei fatti diretta alla Popolare di Milano la cui “governance” è di nuovo al centro di tensioni legate al ruolo dei dipendenti-soci. Ignazio Visco, tuttavia, non ha rinunciato – legittimamente nel suo ruolo – a una riflessione ampia sullo stato delle grandi cooperative creditizie. Un ragionamento intellettualmente onesto, ma non per questo indiscutibile: soprattutto perché collocato in “considerazioni” molto serie e preoccupate sul credit crunch che affligge l’Italia in recessione.

Il filo del discorso di Visco, in sé, è lineare. Le Popolari, ha ricordato il 31 maggio, non sono più le banche di territorio di un quarto di secolo fa. Sono ormai gruppi “too big” su scala nazionale (Banco Popolare e Ubi sono due fra i primi cinque del Paese) e sono tutti quotati in Borsa. Il sillogismo del Governatore si chiude rapidamente: non c’è ragione perché non si omogeneizzino ai diretti concorrenti Intesa Sanpaolo o UniCredit e si trasformino in Spa. Da un lato – ha sottolineato Visco – si eliminerebbero tutte le remore dei grandi investitori di mercato a puntare capitali sulle Popolari. Dall’altro – ha fatto capire chiaramente – la Vigilanza non si troverebbe di fronte periodicamente a “turbolenze” più o meno gravi portate alla stabilità del sistema da una Popolare di Lodi o di Milano.

Non ci si può stupire che il capo dell’authority creditizia italiana – proiettata verso l’Unione bancaria – rammenti invariabilmente il “modello unico” prescritto dalle normative bancarie Ue (accolte fin dal 1994 nel testo unico nazionale): l’attività bancaria – al di fuori delle piccole cooperative – può essere esercitata solo da imprese organizzate come società di capitali, orientate al profitto e tendenzialmente quotate in Borsa.

Fin da qui, però, è possibile fare un po’ di dialettica con il governatore. Se è lecito interrogarsi sulla validità del modello cooperativo per le grandi banche a distanza di vent’anni, non è meno lecito chiedersi quale efficienza ed efficacia ha mostrato il “modello unico” di “banca Spa quotata”: per chi ci ha investito in Borsa, ma soprattutto per il risparmio e il credito gestito da un sistema bancario totalmente “privatizzato” e forzato ad adeguarsi agli standard di un’industria poi drammaticamente implosa. Ma più in particolare, è lecito chiedersi come e perché sia stato dato per scontato che la “riserva indiana” comunque esplicitamente fissata dalla Seconda Direttiva Ue per il credito cooperativo” all’europea” riguardasse soltanto le ex casse rurali e artigiane.

Il gioco delle cause e degli effetti, delle spinte e dei balzi in avanti nell’evoluzione recente delle Popolari è troppo complesso per essere analizzato in dettaglio: ma anche le Considerazioni finali – infinitamente più importanti di queste note – lo danno per sottinteso con qualche ellissi di troppo. La Popolare di Bergamo e la Popolare di Verona fanno da battistrada alla categoria, quotandosi al listino principale di Piazza Affari all’inizio degli anni ‘90 sollecitate da tutti, ma non certo per necessità. Sono altri che ne sentono il bisogno: Governo e Banca d’Italia che le hanno viste all’opera (acquisto del Credito varesino, intervento nella Cattolica del Veneto) e sanno che alle privatizzazioni e al cammino verso l’euro serviranno le solide banche del Nord per riassetti e salvataggi (soprattutto al Sud). E poi lo sviluppo della Borsa è un obiettivo strategico (oggi è lecito dire ideologico).

La vetrina azionaria, allora, aveva bisogno di più offerta, di merce auspicabilmente di qualità: e le azioni delle Popolari lo erano. Ma in molti istituti la stragrande maggioranza dei soci non aveva bisogno di dare liquidità quotidiana ai propri titoli, che erano tipici patrimoni da cassetto, quasi sempre rivalutati ogni anno e fisiologicamente intermediati dalla banca stessa in caso di necessità. E la capacità degli azionariati diffusi di fornire periodicamente nuovo capitale alle loro Popolari ha resistito anche in periodi di crisi. Per questo un leader storico assoluto delle Popolari come l’allora presidente della Popolare di Verona, Giorgio Zanotto, ripeté per anni: “Chi compra un’azione di una Popolare deve sapere che non compra l’azione di una Spa”. Non può non sapere che partecipa a un gioco: in termini di governance d’impresa e di aspettative economico-finanziarie.

Oggi il governatore accoglie senza riserve le lamentele degli investitori istituzionali (che in concreto vorrebbero solo mani libere per giocare all’Opa anche sulle Popolari), ma dimentica che non era obbligatorio consentire loro l’ingresso nei capitali nelle Popolari: e i vertici di molti istituti, infatti, non li hanno mai chiamati. Viceversa l’assillo del prezzo quotidiano di Borsa per qualche top manager di Popolare “market oriented” si è rivelato più insidioso dei rischi veri o presunti di una governance con problemi di efficienza, affidabilità e trasparenza in una società in cui tutti votano per testa e nessuno detiene grandi quote.

D’altro canto oggi il Banco Popolare, leader della categoria, è la somma di tre Popolari storiche: Verona, Novara e Lodi. Non molti diversa è l’identità di Ubi. Entrambi i gruppi erano orientati al consolidamento per linee interne alla categoria: la quotazione al listino principale può aver aiutato, ma non si è rivelata decisiva. Decisivo – per un’operazione di rafforzamento di sistema – è stato il comune DNA cooperativo: altrimenti avremmo avuto altri casi AntonVeneta (una grande Popolare frutto di una fusione interna, trasformata in Spa, regalata a forza all’Abn Amro, ricomprata a caro prezzo dal Montepaschi oggi alle cronache). È pur vero che qualche altro grande intermediario – non italiano – sarebbe più ricco e felice.

Proprio il Banco Popolare, d’altronde, ha rischiato seriamente l’affondamento per l’investimento strategico fatto in Banca Italease: lontano dal “core business” di una Popolare di territorio dell’economia reale, pericolosamente proiettato in quelli della finanza strutturata. Ma sono i grandi fondi che vogliono una Popolare “dinamica”, “aggressiva” soprattutto negli annunci di Borsa: non il piccolo imprenditore che magari non ha mai pensato di vendere le mille azioni ereditate dal padre, ma che – a differenza del padre – oggi non trova più credito presso la “sua” Popolare. A questi signori il governatore della Banca d’Italia dice ora che la cura a ogni male è seppellire del tutto quella Popolare, trasformarla in Spa, lasciar lavorare un gestore di fondi internazionali di private equity come Andrea Bonomi alla Bpm.

Dal nostro piccolo punto d’osservazione siamo perplessi. E ci chiediamo se la cura migliore – per le Popolari e per il credit crunch – non sia restituire le Popolari a se stesse: come in Germania le “volksbanken” a fianco delle “raiffeisenbanken”. Il caso delle “banche cooperative di territorio italiane”, dal canto suo, è un concreto banco di prova ora che molti “bracci di ferro”, molti equivoci stanno arrivando a chiarimenti decisivi. E se alla Popolare di Milano (o altrove) c’è un problema meritevole di un’azione della vigilanza, lo si risolva in quanto tale, non tornando a strillare – come nel 2005 – che l’AntonVeneta andava data ad Abn Amro e non alla Popolare di Lodi in nome di uno scontro di civiltà fra Mercato e zulù.