«Favorendo all’occorrenza l’aggregazione con altri istituti». Il governatore Ignazio Visco suggerisce “matrimoni riparatori” a Montepaschi e Popolare di Milano, che tanti mal di testa stanno dando alla Vigilanza. Non era imprevedibile, ma neppure scontato che le Considerazioni finali indicassero la via delle fusioni – peraltro tipica – per curare all’interno del sistema due situazioni di debolezza. Due “avvisi di aggregazione” differenti, comunque, per due crisi diverse.
Su Mps – il caso più difficile, di sostanziale dissesto – il governatore era atteso al varco e non ha certo sorpreso la sua difesa blindata sulla supervisione di Via Nazionale: tanto più che del monitoraggio sul Montepaschi – soprattutto in occasione dell’acquisizione letale di Antonveneta nel 2007 – è stato responsabile il suo predecessore Mario Draghi e l’ex collega vicedirettore generale Anna Maria Tarantola. Nessun stupore neppure per i toni durissimi usati da Visco nei confronti degli ex vertici senesi: Bankitalia non ha fatto che ribadire la sua autodifesa iniziale, ancorché insidiosa, aiutata peraltro dalla prospettiva impressa dalla procura di Siena alle sue inchieste.
Sul piano giudiziario, il caso-Mps è tuttora circoscritto ai derivati anomali contratti per gestire l’indebitamento di lungo periodo e la responsabilità resta attribuita in via principale ai manager della “banda del 5%”: che avrebbero, fra l’altro, nascosto informazioni sia al loro consiglio d’amministrazione, sia soprattutto alla Vigilanza. Il 31 maggio non era lecito attendersi dal governatore nulla più della conferma della «piena collaborazione con la magistratura», mista alla «fiducia» di chi sa di non correre rischi formali, ma di vedere sicuramente in gioco la reputazione della Vigilanza.
Visco poteva invece rimanere in silenzio sul futuro di Mps, ribadita la tranquillità sui livelli patrimoniali del gruppo e la fiducia di rito ai nuovi vertici (il presidente Alessandro Profumo e l’amministratore delegato Fabrizio Viola). Invece, la “ramanzina” rivolta in via generale alle Fondazioni bancarie (più trasparenza nelle nomine e zero interferenze nella governance delle banche controllate) si è sommata a un’altra raccomandazione ampia ai grandi azionisti delle banche: «Accettare la diluzione, favorendo aggregazioni, con la prospettiva di essere ricompensati dalla redditività nel più lungo periodo». Un invito perentorio rivolto sicuramente alla Fondazione Montepaschi, che faticherà sempre ad arrendersi alla perdita del controllo del Monte, anche se l’assedio a Rocca Salimbeni è ormai da tutti i lati.
Non è tuttavia escluso che Visco si sia rivolto anche ad altre Fondazioni: ad esempio, al pattuglione che detiene una presa salda su Intesa Sanpaolo, più volte indiziata negli anni come “cavaliere bianco” di Siena (al netto degli eventuali problemi di sovrapposizione con Cari Firenze) . Ma non sarebbe sorprendente che la partita Mps potesse chiamare in campo anche UniCredit: o meglio, una “UniCredit Italia” restituita alle sue Fondazioni, in caso di un break-up con le attività austro-tedesche del gruppo (ipotesi sempre ufficialmente esclusa, sempre vociferata dai mercati). Il governatore, in ogni caso, non è sembrato preoccupato di confermare che Montepaschi rimarrà “stand alone”, ciò che invece pare essere fin dall’inizio fra i “desiderata” di Profumo, fiducioso di attirare investitori esteri sulla banca risanata. Visco, d’altra parte, pare respingere tacitamente ogni ipotesi di ristatalizzazione del gruppo: diretta (via conversione in azioni dei Monti-bond) o indiretta, come quella suggestiva che ha preso a circolare nelle ultime settimane (aggregazione col Bancoposta, controllato da Tesoro e Cdp).
Una fusione sembra essere d’altra parte la risoluzione ultima della Vigilanza per domare l’altra grande “indocile” del sistema bancario nazionale: la Bpm. Anche nel commentare – in modo indiretto ma inequivocabile – le ultime vicende della saga di Piazza Meda, Visco non ha potuto non difendere le scelte fatte nel 2011 da Draghi uscente e dalla Tarantola: imporre la governante duale e favorire l’ingresso del presidente-finanziere Andrea Bonomi per spezzare la presa dei dipendenti-soci sindacalizzati, problematica quanto quella della Fondazione a Siena. Ma sul passo definitivo – la trasformazione in Spa della Bpm – il tentativo di Bonomi si è rivelato solo l’ultimo di una lunga serie di fallimenti. E l’ennesima polemica imbastita dalle Considerazioni finali sulla governance delle grandi cooperative bancarie è risuonata alla fine in termini abbastanza accademici, prendendo presumibilmente atto anche dai segnali di stanchezza lanciati ultimamente dallo stesso Bonomi.
La stessa designazione di Giovanni Maria Flick come nuovo Presidente del Consiglio di sorveglianza Bpm appare molto difensiva, mentre a Piazza Affari ci si interroga su un plateale getto della spugna da parte dello stesso Bonomi. L’investimento dei suoi fondi in Bpm è relativamente marginale (meno di un centinaio di milioni rispetto a tre miliardi di asset). Un suo eventuale disimpegno – vendita o anche solo non sottoscrizione di una futura ricapitalizzazione – renderebbe “instabile” la Popolare milanese e ribalterebbe l’impasse sui dipendenti-soci. La moral suasion della Vigilanza, d’altronde, potrebbe intervenire più efficacemente suggerendo una fusione (forse non sgradita neppure a Bonomi) piuttosto che seguendo la via impervia del commissariamento.
A questo punto – ma lo notavamo qui già alcune settimane fa – i dipendenti-soci non possono pensare che con la bocciatura della Spa in assemblea normalizzi la situazione e riporti tutto a prima del 2011. Se Gianfranco Modica – leader storico della (disciolta) Associazione degli amici della Bpm – continua a pensarlo, si sbaglia di grosso: farebbe meglio – stavolta – a gestire attivamente l’ipotesi di una fusione con un’altra Popolare di livello. Sarebbe l’unico modo per far dimenticare troppi incidenti di percorso e dimostrare – anche alla Banca d’Italia – che una Popolare italiana è sempre meglio e mai peggio della Lehman Brothers.