Non è la prima volta che Diego Della Valle si ritrova a “perdere” sul grande scacchiere finanziario: è già accaduto, anzi quasi sempre. Vent’anni fa lo scalpitante industriale marchigiano era entrato nel nocciolo duro della prima Comit privatizzata, sponsorizzato da Romano Prodi e “ammesso in prova” da Enrico Cuccia: finì con una memorabile litigata in assemblea con Luigi Lucchini, con duri alterchi con Cesare Romiti, con Piazza della Scala “salvata” dalle mire di Cesare Geronzi e Vincenzo Maranghi, ma consegnata senza colpo ferire a Giovanni Bazoli. La cacciata dello stesso Geronzi dalle Generali è di appena un anno fa: ancora una volta è Mr. Tod’s a sporcarsi le mani, ma chi ne beneficia sono altri (ad esempio, Francesco Gaetano Caltagirone). In mezzo c’è stato di tutto: dal salvataggio mecenatesco della Fiorentina rotolata in quarta serie, sfociato però in una pesante condanna sportiva durante “Moggiopoli”; fino al foraggiamento momentaneo di Clemente Mastella e delle Feste dell’Udeur a Ceppaloni.
Durante “l’estate delle Opa”, Della Valle si ritrova a difendere Bnl dai “furbetti” e dallo “stregone di Alvito” (il governatore Antonio Fazio). Alla fine ci guadagna, ma non era quello che voleva: anche lui voleva “avere una banca”. Ne esce talmente di cattivo umore che poco dopo fa scenate con il premier Silvio Berlusconi davanti al gotha degli imprenditori: e il suo amico Luca di Montezemolo deve “accettare le sue dimissioni” al vertice di Confindustria.
Sulla partita Rcs, tuttavia, Della Valle è – forse per la prima volta – un “cattivo perdente”. Dopo aver sprecato tempo a dare a John Elkann del “bamboccione”, ha dovuto incassare dall’erede dell’Avvocato una classica mossa da “articolo quinto”: soldi sul tavolo. Si è ritrovato lui, il patron di Tod’s, sul banco degli imputati della sua eterna “narrazione mediatica”: i “veri imprenditori italiani” contro “il capitalismo relazionale”; i finanzieri “in proprio” contro “la spectre bancaria”; il “Made in Italy” contro il salotto degli “arzilli vecchietti”. È vero che la Fiat non ha proprio tutte le carte in regola per scalare il “Corriere”: affermare che lo fa dopo aver incassato ingenti contributi pubblici per chiudere stabilimenti in Italia traslocare negli Usa è tutt’altro che un semplificazione rozza e tendenziosa. Però è vero che Della Valle, anche negli ultimi giorni, non ha fatto altro che chiedere garanzie preventive, che pretendere di esercitare “allo scoperto” un puro potere evidentemente sognato da sempre (”avere un giornale, avere il Corriere”).
La famiglia Agnelli, invece, si sta muovendo su Rcs in modo apparentemente irreprensibile: mettendoci capitali, apportando relazioni globali di business, disegnando strategie ben diverse dal “cacciamo l’amministratore delegato, cambiamo il direttore”. Ed è per questo che questa piccola nota invita nuovamente a trascurare la piccola querelle Della Valle-Agnelli per guardare invece ai segnali strutturali che s’intravvedono nell’esito probabile della partita Rcs (con Mediobanca e Intesa Sanpaolo a fianco degli Agnelli, assieme a chi lo vorrà: quasi tutti utili e benvenuti, nessuno necessario).
La capacità di mobilitare capitali propri e di altri – e quella degli Agnelli è oggettivamente superiore a quella di Della Valle – è importante, ma non decisiva. Più rilevante sembra l’approccio che s’intravvede dietro la mossa di Torino: ristrutturare in profondità un gruppo che – come quasi tutti i concorrenti – sta affrontando una crisi tutt’altro che congiunturale. “Spacchettare” Corriere della Serae Gazzetta dello Sport oppure “impacchettare” La Stampa significa – azzardiamo – prendere atto che il glorioso quotidiano piemontese ha un futuro come testata regionale: la prima di una filiera che farà capo a Rcs? Che futuro avranno le altre gloriose testate regionali del gruppo Rieffeser o di quello Caltagirone?
Una Gazzetta “spacchettata” – naturalmente non in modi limitati a un puro risiko finanziario – potrebbe invece restare gloriosa alleandosi con un “media mogul” come Rupert Murdoch che ha fatto del binomio sport-tv la vera piattaforma del proprio successo imprenditoriale. Per la verità non diversamente ha fatto Silvio Berlusconi con Mediaset, che va pure reinventata e a proposito: quanto può resistere una legislazione sui media e del tutto obsoleta nel suo perimetro nazionale, nei suoi steccati interni fra canali, nella sua sostanziale chiusura alla concorrenza e alla nuova imprenditorialità?
Chi pensa che un’alleanza fra la “nuova Rcs”, la “nuova NewsCorp” e magari la “nuova Telecom” sia irrealizzabile “perché la normativa non lo consente” è fuori strada. Invece è prevedibile che se il governo (qualsiasi) vorrà/potrà aiutare l’editoria in crisi, il settore dovrà fornire qualche buon motivo: esuberi da ammortizzare, ma almeno da fusioni e acquisizioni; qualche agevolazione sì, ma almeno alla digitalizzazione dei media italiani, con l’ingresso nella professione di “giornalisti 2.0”.
Se quella di Rcs si rivelasse solo l’ennesima, abituale “campagna estiva” attorno all’unico numero civico di Piazzetta Cuccia, stavolta sarebbe un’occasione persa per tutti.