Può darsi che all’ultima assemblea dell’Abi il ministro Fabrizio Saccomanni e il governatore Ignazio Visco abbiano giocato un po’ al poliziotto buono e a quello cattivo. Resta il fatto che Bankitalia ha continuato nel suo “blame game” verso le  sue banche vigilate, neppure il discorso di Visco fosse stato scritto da uno Zingales o un Giavazzi, se non addirittura personalmente da Mario Draghi: il credit crunch c’è ed è colpa delle banche italiane; restano loro il problema, mentre dovrebbero essere la soluzione alla recessione; zavorrano loro l’Azienda-Italia con le loro proprietà piene di Fondazioni e i loro modelli di governance, in cui c’è sempre una Popolare di troppo.



Lo stesso 10 luglio, a Palazzo Altieri, è risultato invece chiaro che tra il ministero dell’Economia – retto da un ex direttore generale di Via Nazionale – e il sistema bancario domestico sta maturando un doppio patto fiscale di portata addirittura più ampia rispetto alla politica creditizia. Al centro del dossier la rivalutazione patrimoniale delle partecipazioni nel capitale Bankitalia e la possibilità di ripulire più velocemente le perdite su crediti gonfiate dalla crisi nei bilanci bancari. Due “querelle” classiche nelle “considerazioni estive” della presidenza Abi, ma stavolta pare che si faccia sul serio, con tanto di cifre ufficiose in circolazione.



Un miliardo: sarebbe questo l’introito fiscale straordinario che il sistema bancario assicurerebbe all’Erario sottoforma di imposta sostitutiva del 20% che “affrancherebbe” 5 miliardi di valore per le partecipazioni detenute dai singoli gruppi nel capitale della Banca d’Italia, oggi in bilancio a 136 milioni quasi simbolici. La prima cifra non sarebbe trascurabile per il Tesoro in sede di impostazione della legge di stabilità 2014. La seconda sarebbe altrettanto significativa per il rafforzamento patrimoniale delle banche e quindi per la loro possibilità di offrire credito all’interno di coefficienti di vigilanza più flessibili.



Comprensibile la cauta freddezza di Bankitalia: da un lato si ritrova – almeno in parte – semplice oggetto di un processo di valutazione patrimoniale. Una stima prudenziale e fiscalmente compatibile – come i 5 miliardi al centro dei rumor – rischia di penalizzare l’orgoglio patrimoniale di una banca centrale che da anni fa circolare un valore aziendale almeno doppio. D’altro canto, sarà anzitutto Bankitalia – anche solo nelle vesti di “avvocato-arbitro” in sede di Unione bancaria – a dover certificare la valida consistenza delle riserve patrimoniali fatte emergere contabilmente ai fini dei parametri di vigilanza Basilea 3: è vero che – nello stress test di fine 2011, famigerato e discriminatorio verso le banche italiane – l’Eba ha chiuso tutt’e due gli occhi su interpretazioni contabili ben più acrobatiche (ad esempio, quelle che hanno aiutato lo spagnolo Santander a chiudere un gap patrimoniale di 15 miliardi).

Dall’aggiustamento definitivo dell’“operazione Bankitalia” dipenderà prevedibilmente la dimensione del “capitolo B” del “grande patto”: la modifica dei criteri di abbattimento fiscale delle perdite sui crediti nei bilanci. Si parte dal tetto annuo dello 0,3% del portafoglio crediti totale e dalla lunghissima periodizzazione dell’ammortamento di una singola partita (18 anni): il tutto lontano dalle regolamentazioni di altri paesi, più elastiche e vicine all’abbattimento “in tempo reale” dei “cattivi prestiti” definitivamente perduti. Dall’altro lato, preme l’emergenza-sofferenze che già da tempo evoca addirittura una “bad bank” di sistema, sulla falsariga di quella messa in cantiere in Spagna, ma anche dello stesso Tarp usato come terapia d’urto dal Tesoro Usa nel 2008.

Difficile che un intervento sulla fiscalità ordinaria delle perdite su crediti possa gestire la straordinaria amministrazione: più facile che fra Tesoro e banche maturi una soluzione intermedia. Ad esempio, una manovra segnaletica: un regime nuovo e più flessibile, ma a valere solo sulle perdite contabilizzate su crediti di futura erogazione. Oppure un accordo parziale, con regole di ammortamento più larghe da subito, ma solo entro certi parametri tipologici dell’impiego irrecuperabile.

Il significato politico dell’operazione sarebbe comunque inequivocabile: dal Tesoro – cioè dal governo – giungerebbe una manifestazione robusta di quel “rispetto” che il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, ha apertamente preteso pochi giorni fa per un sistema bancario che da ormai un decennio è il bersaglio privilegiato di chiunque: politici e imprenditori, media e associazioni di consumatori, non ultime le stesse authority.  Non da ultimo, il gradimento del Tesoro si estenderebbe tacitamente anche alle Fondazioni: sul cui ruolo, peraltro, Saccomanni non è mai stato esitante come lo è invece Visco (basta rileggere il suo intervento al congresso Acri di un anno fa). E sarebbe tutt’altro che irrilevante ai fini di altri dossier strategici: l’incubazione di una “bad bank” di sistema oppure la strutturazione di un fondo di garanzia per sostenere il credito alle imprese piccole e medie possono avere come piattaforma soltanto la Cassa depositi e prestiti,  joint venture fra Tesoro e Fondazioni.

Se l’“operazione Bankitalia” si perfezionerà, avrà in ogni caso degna conclusione una delle vicende più eloquentemente paradossali della recente storia finanziaria italiana. Per quasi settant’anni, fino all’estate del 2005, la proprietà della Banca d’Italia è stata un non-problema: i “partecipanti al capitale” (cui ogni 31 maggio il Governatore di turno rivolge le sue Considerazioni finali) hanno sempre recitato una parte meno che figurativa. Da Guido Carli a Carlo Azeglio Ciampi, fino ad Antonio Fazio, il banchiere centrale italiano, capo di una vigilanza molto strutturata, è sempre stato un monocrate assoluto e via Nazionale un esempio di muraglia cinese perfettamente funzionante contro ogni rischio di “cattura” del vigilante da parte dei suoi vigilati. Soltanto con l’appoggio dato da Fazio all’attivismo di Gianpiero Fiorani su Antonveneta, Bnl e Rcs il panico sbrigliò la fantasia di alcuni professorini liberisti, fra cui lo stesso rettore della Bocconi Guido Tabellini. Furono loro a teorizzare la necessità di liberare Bankitalia dalla pseudo-proprietà delle banche: anche al fine di dare parvenza di contenuto “globalista” alla cosiddetta “legge sul risparmio” (262/2005). Un provvedimento che nei fatti, servì a coprire di cartapesta “riformista” l’esecuzione sommaria di Fazio per via giudiziaria e la presa di possesso di Via Nazionale da parte di Mario Draghi, proveniente dalla Goldman Sachs.

Il paradosso, ovviamente, non ha potuto che continuare, fra paradibattiti giuridici di circostanza sulla natura “ordinatoria” o “tassativa” dell’indicazione. Ma non ha certo sorpreso che il neo-governatore Draghi abbia da subito preso le distanze sulla proposta dei suoi “fan” di cambiare lo status quo in Via Nazionale. Mentre il ministro Giulio Tremonti – non propriamente un “bocconiano” – è sempre stato concorde sull’opportunità di togliere alle banche la proprietà di Bankitalia, nazionalizzandola e portandola sotto  il controllo del Tesoro (naturalmente assieme alle sue riserve d’oro). Né stupì che le stesse banche “partecipanti” non fossero affatto disturbate dagli anatemi “bocconiani”: si sarebbero fatte lietamente cacciare subito da Via Nazionale, a patto di essere liquidate a prezzo vero e con soldi veri. Per non parlare delle Fondazioni, bestia nera degli Zingales di tutto il mondo: per anni non hanno fatto che dirsi disponibili soddisfare i “desiderata” degli Zingales, subentrando alle loro banche partecipate nel ruolo di “sleeping partner” di Bankitalia.

Adesso il gioco a rimpiattino sembra prossimo all’esito: con le banche che resteranno come ottant’anni fa “partecipanti” al capitale della loro centrale; con il successore di Draghi costretto a vedere la sua banca messa in gioco come in una partita di fusioni e acquisizioni per aiutare le banche vigilate ad avere più patrimonio e dare più credito. Ovviando magari alla draconiane applicazioni delle regole di vigilanza in Italia, a far paio con l’ormai leggendaria letterina indirizzata nell’agosto 2011 al governo italiano dal presidente entrante della Bce, il governatore uscente Mario Draghi.