Angela Merkel ha detto che la Germania è contraria a un intervento militare internazionale in Siria. Si è certamente esposta al rischio di critiche: anzitutto quelle del partner francese in Europa, quella Parigi che vorrebbe bissare a Damasco la controversa avventura neo-coloniale a Tripoli, in asse con Usa e Gran Bretagna. Berlino può aver riacceso il malumore anche in Israele, che sicuramente gradirebbe veder blindata a nord del Golan l’ennesima “operazione-sicurezza” – per interposti belligeranti – appena perfezionata a ovest del Sinai, con il golpe militare al Cairo.
Nessuno, in ogni caso, potrebbe negare al nein tedesco il merito di un nuovo e trasparente esercizio di realismo politico. La Siria non è una priorità nell’agenda politica internazionale: questo è il cuore metodologico dello statement di Berlino. E’ una ruvidezza che può non essere condivisa sul piano diplomatico o può urtare su quello socio-culturale. Ma sarebbe un errore svalutarlo a tattica “comunicazione di servizio” di un premier e di un paese in campagna elettorale. Oppure continuare a rimproverare alla Germania la sua presunta “impoliticità”: chiusura retrograda ai tempi e ai modi della globalità geopolitica. Che è poi l’accusa – lo strumento politico-mediatico – con cui la Ue germanocentrica è stata e rimane sotto la pressione dei mercati finanziari durante la lunga (e presunta) crisi dell’euro, dalla Grecia all’Italia.
Per l’appunto: la priorità globale è e resta la ricostruzione dell’economia e del sistema finanziario su basi stabili. Questo vale per la pur solida Germania, che su questo si sente chiamata a rinnovare o meno la fiducia democratica al suo cancelliere. Ma vale anche per la convalescente Unione europea, per l’artificiale benessere statunitense, per la declinante salute di Cina e India, degli altri Brics, del Giappone: perfino per l’area mediorientale, che in fondo convive con la sua instabilità dal 1948, ogni mattina dell’anno. La stessa sicurezza globale dipende da ultimo dalle risposte che ancora mancano a questa questione prioritaria. Affermarlo non significa negare la minaccia dell’islamismo radicale o cancellare l’orrore umano per l’uso dei gas in una guerra civile: a maggior ragione se fatti altrettanto orribili accadono a decine, ogni giorno, anche lontano dalla Siria (e sempre più spesso contro i cristiani). Ma l’agenda globale non la fanno le scalette della Cnn o del “world service” della Bbc. Per quanto possa apparire politicamente scorrettissimo, proviamo a rovesciare – per una sola volta – il discorso: 27 milioni di disoccupati (nella Ue a fine luglio) “valgono” meno di mille morti in Siria?
Per la verità, anche il presidente americano Barack Obama sembrava della stessa idea. Otto giorni fa, nel weekend di Ferragosto, la Casa Bianca ha annunciato che il primo impegno del presidente al rientro dalle vacanze sarebbe stato «incontrare i leader delle authority finanziarie per discutere lo sviluppo della riforma Dodd-Frank nel 2010»: l’appuntamento resta teoricamente in calendario per oggi. Qualcuno ha potuto sorprendersene?
A quasi un anno dall’inizio del secondo mandato – quello nel quale un presidente americano opera quasi sempre “per i libri di storia” – era prevedibile che Obama volesse scrollarsi di dosso un’immagine scomoda rimastagli appiccicata addosso nel suo primo quadriennio: un’immagine di eccessiva condiscendenza verso i “bad guys” di Wall Street, quelli del crack Lehman. Quelli che – ad ascoltare coloro che “pensano male, fanno peccato ma spesso ci azzeccano” – avrebbero favorito l’elezione del “primo presidente afroamericano” proprio per garantirsi l’“exit strategy” più comoda dalla più grave crisi economico-finanziaria di tutti i tempi. Non è affatto casuale che nell’agosto 2013 Obama volesse – voglia – chiamare tutti a rapporto: con l’obiettivo di riaffermando il primato della politica sui mercati; mostrando di non aver affatto perso la dimensione delle priorità da affrontare (il lavoro e il reddito), la percezione delle reali instabilità da correggere, il senso sostanziale della democrazia. E tutto questo non nella cornice di un forum culturale di mezza estate: nelle prossime settimane la Casa Bianca deve scegliere il successore di Ben Bernanke al vertice della Fed, il “sancta sanctorum” del dollaro. Un centro di potere ormai al centro di tali pressioni da aver perso coesione interna nel vertice e quindi efficacia di comunicazione ai mercati.
Non possiamo sapere ora se il prossimo banchiere centrale statunitense si rivelerà un “eroe”, secondo l’ultima iperbole del direttore generale del Fmi, Christiane Lagarde. Continuiamo ad augurarci – con Bertolt Brecht – una «beata» convivenza fra economie e monete «senza bisogno di eroi».
Ma è vero che il “primo presidente afro” si accinge a calare sulla Fed una “golden card”: forse la più importante del suo mandato (più importante dell’invio delle cannoniere al largo della Siria). Sarà Obama – sfogliando la margherita fra Janet Yellen, Larry Summers o Donald Kohn – a decidere se la moneta e il credito devono rimanere “beni pubblici” (“sussidiari”) condivisi fra nuovi Stati e nuovi mercati oppure se proprio il settembre 2008 (più micidiale del settembre 2001) ha certificato che sono diventati strumenti privato di un oligopolio bancario apolide, egemone, irresponsabile.
Summers, quasi sicuramente, radicalizzerebbe il fondamentalismo iper-finanziario della “vecchia” Wall Street degli anni 90, che pure crebbe dietro il brand “democrat” di Bill Clinton. Curiosamente, i sostenitori di Summers si mimetizzano ora da “falchi” monetaristi dopo i lunghi anni dei “quantitative easing” di Bernanke: a Wall Street – ai mercati – poco importa ala fine della direzione della politica monetaria, importa invece tenerne le leve in mano, dettarne i ritmi. Nel post-Lehman l’iper-liquidità garantita dalla Fed era necessaria per non far fallire altre banche e poi per consentire alla Goldman Sachs e alle sue sorelle di fare nuovi utili con i vecchi manager: non per “stimolare” una ripresa che – guarda caso – sta facendo risalire i prezzi degli immobili.
Ora Wall Street ostenta “ortodossia” perché vuole allontanare da sé – e addossare ai “politici” – le accuse di crescita “drogata”, con inflazione crescente e senza adeguata ri-occupazione. E poi una politica meno espansiva può tenere in riga l’Europa e rimettere in riga l’Asia («Eppure li avevo messi al loro posto quei bastardi di Wall Street», grida Anthony Hopkins impersonando Richard Nixon in un film sul Watergate).
Bene, mentre tutto questo è “in progress” fra Washington e New York, anche i media italiani si sono accodati a un singolare dibattito estivo sulla “delusione” suscitata dalla presidenza Obama: naturalmente in politica estera (esemplare, sul Corriere della Sera, un editoriale dell’ex ambasciatore Sergio Romano).
Come tale Silvio Berlusconi in Italia anche Obama si starebbe dimostrando definitivamente “unfit”: proprio ora e naturalmente perché è irresoluto sulla Siria dopo aver tentennato sulla restaurazione militare in Egitto. Mai come ora l’inquilino della Casa Bianca deve maledire lo scherzo che qualcuno gli ha fatto appena dopo l’elezione, conferendogli il Nobel per la pace.
Mentre comunque Obama viene autorevolmente invitato a chiarirsi in fretta le idee, Moody’s ha messo sotto osservazione le sei maggiori banche americane: eppure sono tutte reduci da una vendemmia di profitti trimestrali che ha fatto quasi gridare allo scandalo, anche negli Usa. Appena due anni fa Standard & Poor’s – sorella di Moody’s – colpiva Obama in agosto togliendogli la tripla A dal rating sovrano. Oggi i “boss de rating” appaiono più guardinghi: può darsi che sentano odore di bruciato attorno a Wall Street e che vista la nomea peggiorata nel frattempo, temano di farne le spese per primi. Ma non è detto che abbiano davvero acceso i loro fari in faccia ai poteri forti di Manhattan. Essere pessimisti sul futuro delle banche significa far da sponda al malumore del big business. E tenere il coltello “mediatico” della politica monetaria dalla parte del manico.
La “colomba” Yellen alla Fed? Bene, ma l’hai deciso tu, mister president: anche di lasciarci in mano la liquidità per fare mega-utili speculando sull’euro, sul default greco, sullo spread italiano. E’ tempo di sminare definitivamente l’emergenza, di fare ordine in casa? Ottimo, c’è il vecchio Summers pronto. Anche a tirare la volata alla candidatura 2016 della vecchia amica Hillary Clinton, facendone da subito una specie di “presidente incaricato”. Ovvio che non punteremo tutto su di lei: per esempio c’è questo Chris Christie, 51 anni, governatore del New Jersey, repubblicano centrista. Lo abbiamo messo a dieta, abbiamo passato le sue nuove foto ai giornali proprio in questi giorni. Ma certo che può fare il presidente. Peggio di quello che abbiamo ora è difficile: se ne sta in vacanza mentre dovrebbe far la guerra in Siria.