Un post-scriptum ai 25 amici de Il Sussidiario che seguono queste note. Chi le scrive è sempre stato critico verso la conduzione dell’inchiesta della Procura di Siena sul caso Mps e lo resta ancora: ma per le ragioni opposte a quelle oggi rinfacciate da alcuni colleghi ad altri, all’indomani dello scoppio di una pretesa “bolla giudiziaria”. Il caso Mps non è stato e non è affatto diventato ora una bufala gonfiata in tutta fretta sotto elezioni dalla stampa anti-politica assortita (compresi Corriere della Sera, Repubblica e Sole 24 Ore) per minacciare il Pd di Pierluigi Bersani oppure il Pdl di Denis Verdini. Rimane invece l’unica crisi bancaria – e la più grave in epoca contemporanea – di cui abbia sofferto il sistema-Italia all’interno di un crollo senza precedenti del sistema finanziario globale.
Sulle sue origini (l’acquisizione di AntonVeneta) e sui suoi sviluppi (soprattutto l’operato della Vigilanza Bankitalia e delle altre authority) i Pm di Siena hanno detto di non aver trovato nulla di “penalmente rilevante”. Da democratici per definizione fiduciosi nel sistema giudiziario, vogliamo credere loro. Ma non possiamo non registrare che altri magistrati di questo Paese, in tempi recenti, hanno condannato in via definitiva un governatore della Banca d’Italia per vicende che non avevano avuto sbocco in dissesti; hanno posto in custodia o in sospensione cautelare, processato, condannato fior di banchieri per molto meno del crac della terza banca italiana.
Appare per certi versi scorretto anche affermare che dall’inchiesta non è emersa traccia di nessuna “tangente”, come hanno peraltro fatto apertamente gli inquirenti senesi a fine indagine. Loro andavano ufficialmente a caccia di “mega-mazzette’ all’interno dei 10,1 miliardi complessivi “fatturati” da Mps al venditore di AntonVeneta e all’advisor Credit Suisse. Hanno detto di non aver trovato nulla, nonostante uno spiegamento internazionale di militi della Guardia di finanza. Ancora una volta lo stile giornalistico e civile di questa testata impone di rispettare quanto meno la forma del loro giudizio. Ma nella sostanza – ancora una volta sul piano dell’“economia politica” del caso Mps – almeno una “tangente” (cioè tecnicamente una “commissione impropria”) è transitata, e salatissima: quella dei ripetuti aiuti pubblici pagati dallo Stato italiano (cioè da tutti i suoi cittadini-contribuenti) per mantenere in vita il Monte nel sistema di regole formali e sostanziali dei mercati finanziari che hanno contribuito in modo decisivo a colpire a morte Rocca Salimbeni.
Nel “sistema di regole” includiamo – non da oggi – il comportamento di un banchiere centrale (vigilante obbligatorio sulla stabilità di banche e sistema) proveniente dalla Goldman Sachs che non ha aggrottato il ciglio neppure per un attimo di fronte a un’acquisizione palesemente sconsiderata, scarto finale di un “deal” altrettanto artefatto come l’Opa di Rbs, Fortis e Santander su Abn Amro. Nel “sistema di regole” includiamo anche un consiglio d’amministrazione – quello di Mps nel 2007 – che ha palesemente messo a rischio mortale una società quotata: per com’è andata a finire, un “moral hazard” pari a quello dei vertici di Lehman Brothers nel fabbricare derivati, tendere leve oltre ogni limite, disattivare meccanismi di controllo e comunicare al mercato situazioni opache. (Anche il Tesoro avrebbe dovuto vigilare meglio sulla Fondazione Mps, che non voleva diluirsi nella banca e si è indebitata: due comportamenti sostanzialmente illegali).
Per salvare Mps tutti gli italiani hanno dovuto aumentare il loro debito collettivo. Per non parlare di tutti gli effetti collaterali, in parte riassunti da Salvatore Bragantini su Il Corriere della Sera: il caso Siena ha pesato sullo spread, sui rating, sulla valutazione di Borsa delle banche, sull’esito degli stress test Eba, sul credit crunch. Questa è la “dazione ambientale” che l’Azienda-Italia ha dovuto e in parte continua a pagare per sopravvivere ogni giorno nel ricatto globale dei mercati e in quello geopolitico.
Certo, non era compito dei Pm di Siena illuminare tutto questo. Ma con il loro lavoro di pubblici ufficiali potevano dire “qualcosa di civile” su un terreno veramente fondamentale per la vita del Paese, di tutto il Paese. Non l’hanno fatto. E davvero poco conta, a questo punto, se per una volta, i professionisti del giustizialismo si sono ritrovati scoperti dalle “loro” Procure.