Non più tardi di mercoledì scorso, uno dei Tecnici più potenti del pianeta – il presidente uscente della Fed, Ben Bernanke – ha sancito le decisioni del massimo organo collegiale di politica monetaria del dollaro (il Fomc) nella direzione desiderata da quello che è tuttora considerato il Politico più potente del pianeta: il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, democraticamente in carica fino al 2016. Durante l’estate il leader della Fed aveva prospettato un graduale “tapering” dai ripetuti “quantitative easing” somministrati dalla banca centrale statunitense in funzione anti-recessiva dopo la Grande crisi finanziaria. In concreto, aveva preannunciato la volontà di riassorbire progressivamente gli enormi quantitativi di liquidità d’emergenza immessi nell’economia – americana/globale – con un duplice fine: stabilizzare e ricostruire il sistema bancario; stimolare la ripresa.

Contrordine: la politica monetaria accomodante/espansiva continua, almeno fino a nuovo ordine. L’inatteso segnale colto così favorevolmente dai mercati – “giusto” o “sbagliato” ha poca importanza ai fini del nostro breve ragionamento – ha obbedito comunque fedelmente alle indicazioni politiche aggiornate del “comandante in capo” della più sviluppata democrazia del mondo. E il passaggio ha seguito “ad horas” un’altra decisione-choc da parte della Casa Bianca: quella di cancellare la candidatura consolidata di Larry Summers per la successione di Bernanke alla Fed, rilanciando le chance di una cosiddetta “colomba” (espansiva) come Janet Yellen.

Anche in questo caso non entriamo nel merito della vicenda (chi qui scrive resta comunque convinto che l’apparente conversione rigorista di Summers rimanesse funzionale a una chiusura di cerchio della Grande crisi in chiave di “bid speculativo strutturale” da parte dell’oligopolio bancario di Wall Street; e che Obama, “anatra azzoppata” dopo l’affaire siriano, abbia voluto scalciare l’establishment democratico, troppo pressante e fors’anche machiavellico nel preparare la candidatura 2016 di Hillary Clinton).

Quello che qui interessa è invece ancora una volta il rapporto critico fra politica e tecnocrazia, fra democrazia e finanza in questo scorcio di secolo. Quello che incuriosisce è che proprio ieri il ministro (tecnico) dell’Economia italiano – Fabrizio Saccomani, ex direttore generale della banca centrale – abbia minacciato le dimissioni perché il rapporto deficit/Pil nazionale avrebbe superato dello 0,1% la soglia ”tecnica” del 3% fissata dall’Ue. E Saccomanni, nei fatti, fa mostra di alzarsi scandalizzato dal tavolo del suo governo (politico e per di più di larga coalizione) perché il suo premier sta cercando a tutti i costi di mantenere il valore della stabilità dell’esecutivo e sta esplorando ogni minimo spazio politico-economico (si chiami abolizione dell’Imu o non-aumento dell’Iva) per favorire l’uscita del Paese dalla più drammatica recessione della sua storia repubblicana.

Di più, il ministro dell’Economia minaccia di rovesciare il tavolo la domenica delle elezioni tedesche: quando – al di là delle cortine fumogene – anche Angela Merkel (ormai votata ai libri di storia) sembra intenzionata a rivestire appieno i panni del Politico, con una gestione meno (strumentalmente) tecnica della politica economica dell’Eurozona. Ma tant’è: appena venerdì, ilWall Street Journal ha “mosconato” su possibili deroghe ai vincoli di bilancio Ue per la spesa infrastrutturale nei paesi deboli (Grecia, Spagna, Portogallo).

Nel cauto silenzio-assenso di tutti (anzitutto di Bruxelles) alla vigilia del voto in Germania, Saccomanni non ha trovato nulla di meglio che elencare tutte le ragioni (tecnico-eurocratiche) per cui l’Italia non sarebbe comunque oggetto di regimi temporaneamente più favorevoli: meritandosi una insolita tirata d’orecchie perfino da Il Sole 24 Ore. Forse per questo lo abbiamo ritrovato, ieri mattina, a piagnucolare di dimissioni sulla prima pagina de Il Corriere della Sera.

Almeno il suo mentore – il presidente della Bce, Mario Draghi – le mani ha dimostrato di sapersele sporcare (politicamente) quando ha distribuito liquidità a rubinetto alle banche europee e ha costruito il sistema dei fondi salva-Stati. Poi, certo, si è voltato dall’altra parte quando l’Eba ha massacrato le banche italiane sui parametri patrimoniali: ma qui il problema (euro-politico) non era e non è suo, ma del governo italiano. Nel quale bisognerebbe capire chi rema in quale direzione.