La lunga intervista rilasciata da Sergio Marchionne al direttore di Repubblica, Ezio Mauro, ha avuto il fine verosimile di rispondere a una lunga analisi pubblicata dal Financial Times all’indomani dell’accordo Fiat-Veba su Chrysler: un articolo insolitamente duro, poco ripreso sui media italiani, quasi unanimemente positivi sull’operazione. Più che criticare il passaggio finale dell’acquisizione di Chrysler da parte del Lingotto, il quotidiano della City prende di mira personalmente il Ceo: con accenti solitamene non usati per il top manager di una multinazionale.
Il capo della Fiat viene definito un “giocatore di poker” che proprio nel finale di partita a Detroit avrebbe continuare a “bluffare”. Ma per il FT non può che essere così, dal momento che Marchionne è essenzialmente “un affarista” e non un “uomo di industria dell’auto”: lontanissimo sia da un super-tecnico come il Ceo di Volkswagen, Martin Winterkorn, sia da Alan Mulally, salvatore della Ford, un ex gigante delle quattro ruote di proprietà di una famiglia. Di Torino, invece, il manager italo-canadese, avrebbe mantenuto l’abitudine dei vertici a operare con metodi “autocratici”. E oltre ad aver trasferito a Detroit lo stile dirigenziale – un piccolo clan asserragliato – avrebbe tenuto tenacemente fede alla proprio profilo di uomo solo al comando anche nel condurre le trattative con il sindacato Uaw “senza banchieri e avvocati” al fianco. Ed è qui che il FT non si preoccupa di lasciar trasparire la chiave di un malumore assai poco “british”.
Il capo d’accusa per Marchionne è dunque quello di aver concluso l’operazione Fiat-Chrysler senza passare dal mercato: senza collocare in Borsa il pacchetto Veba; senza annunciare – almeno per ora – un aumento di capitale a monte. Tradendo presumibilmente, se non qualche impegno almeno qualche aspettativa forte da parte di una Wall Street affamata di Ipo per certificare la sua grande ripartenza. L’uomo al comando di Fiat-Chrysler ha invece messo in cantiere un complicato prestito convertendo, più di dieci anni dopo quello sottoscritto dalle banche italiane per salvare il Lingotto. Un’operazione che – nelle premesse – alla scadenza avrebbe dovuto diluire la famiglia Agnelli e rendere contendibile la storica capofila dell’industria italiana: cosa che invece non è avvenuta per il controverso ricorso a un “equity swap” che ha mantenuto l’Ifi di Yaki Elkann alla soglia del controllo, anche se infliggendo seri guai giudiziari a Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, tutori della continuità agnelliana dopo la scomparsa dell’Avvocato.
All’inizio del 2014 – dietro la facciata globale del turnaround Fiat-Chrysler – è immaginabile che il conto da regolare sia lo stesso, quasi fra gli stessi protagonisti: la famiglia Agnelli (sostanzialmente uninominale), un composito “corpus” industriale affidato a un manager “autocratico”; un composito sistema finanziario nazionale e internazionale; un ancor più composito sistema-Italia fatto di economia in crisi drammatica, di politica in ruvida transizione (dove l’emergente è il filo-americano Matteo Renzi) e di sindacati in ordine sparso. Non stupisce affatto, quindi, che un Marchionne “rincorso” dal FT fra Detroit, New York e Londra, cerchi e ritrovi ampia udienza a Repubblica, giornale equi-vicino a Torino e a Roma.