Può darsi che Leonardo Di Caprio veda trasformarsi in Oscar la sua nomination a miglior attore protagonista per “The Wolf of Wall Street”: ventisei anni dopo il premio a Michael Douglas, il memorabile Gordon Gekko della finanza ruggente anni ‘80. Ma quante differenze fra l’eroe maledetto di Martin Scorsese e l’icona scolpita da Oliver Stone. Gordon Gekko è il cavaliere di un’America che vuole lasciarsi alle spalle una parentesi di sconfitte e scacciarne tutti i dubbi: il Vietnam, il Watergate, la crisi petrolifera, l’emergere della potenza industriale giapponese. Douglas vince l’Oscar per un’orazione scespiriana a sostegno di un’Opa ostile: è il volto di una finanza che fa letteralmente a pezzi l’industria ma con l’aspirazione – in fondo non disonesta o storicamente infondata – di scuoterla e rigenerarla; di svolgere una funzione schumpeteriana nella “malfunzionante Azienda America”.

Quando Gekko tuona il suo credo – “Greed is good”, l’avidità è buona – riecheggia una conferenza tenuta all’Università di California da un vero leone di quella Wall Street: Michael Milken, l’inventore dei junk bond. I predecessori dei derivati non avevano timore di annunciarsi spavaldamente come “spazzatura”, non si rifugiavano dietro sigle astruse: e servivano – alla loro origine – per scalare aziende americane in carne e ossa, non per polverizzare e nascondere nel mondo il rischio finanziario su immobili inutili, ultima spiaggia di un’economia drogata.

Dietro Gekko c’è Ronald Reagan che all’inizio della sua presidenza si rivolge in tv agli americani tenendo nelle mani una banconota da un dollaro e nell’altra una manciata di cents: la moneta – la moneta degli Stati Uniti – è una cosa seria, non può deprezzarsi nell’inflazione e nella perdita di competitività del Paese. Quel “lupo di Wall Street” si scaglia per primo contro la malattia dei “deficit gemelli”, nei conti federali e nella bilancia commerciale.

L’occhio civile di Stone – il regista che aveva già esorcizzato sullo schermo i fantasmi del Vietnam – è catturato dal suo personaggio, anche se alla fine non gli perdona l’amoralità che sconfina nell’illegalità. Gli spiriti animali di quel “lupo” finiscono in carcere e vengono smascherati – agli occhi del giovane allievo Charlie Sheen – dal confronto con il padre (nel film è il padre vero dell’attore, Martin), meccanico di una compagnia aerea. Gekko aveva “valorizzato” anche quella, corrompendo il giovane Sheen e depredando il fondo pensione del vecchio e dei suoi colleghi.

“Wall Street” appare oggi un film quasi semplice rispetto a quello di Scorsese, che ha sicuramente il merito artistico di tenere lo spettatore incollato per tre ore a un mondo separato – eppure reale – di misteriosa complicazione. È il volto più oscuro, ma più vero della finanza “dematerializzata”, esasperatamente “derivata” in tutte le sue dimensioni: la velocità e l’iperglobalità, il linguaggio e i guadagni; le feroci regole di sopravvivenza e le perversioni fini a se stesse come esito. Non c’è differenza fra vertiginose tecnicalità finanziarie, micidiali miscugli di farmaci-droga, meta-parole di supersonica trivialità, patologica fantasia organizzativa per le serate. È una Wall Street senza fondali, universale ma in fondo “da nessuna parte”: un po’ simile agli attici bianchi ed eterei di “Metropolis”, ma più complessa e aliena rispetto alla metafora di Fritz Lang, che attaccava il capitalismo industriale e i suoi percorsi di sfruttamento.

La finanza sfrutta la piccola avidità e la grande ignoranza delle persone, non più il suo sudore e talvolta il suo talento. Costruisce dollari dai dollari in arcate che prima o poi cadono sul loro vuoto. Ma dopo il crac di Lehman Brothers – rispetto ai lunedì neri di fine anni ’80 – anche a un grande come Scorsese sembra mancare la volontà – o forse solo l’energia – per tornare a giudicare Wall Street. Forse il suo affresco è però obbligato a rispettare lo spirito del tempo. Stone denunciava l’emergere di un mondo vivo, il suo film rispondeva dialetticamente a una civiltà che si andava definendo e affermando. Scorsese medita su un mondo che è morto ma che nessuno ha finora sepolto. E il suo è – forse non per caso – un film sostanzialmente “tronco”, senza finale: come “Blue Jasmine” di Woody Allen, altro candidato all’Oscar, altro carnet d’appunti statunitensi sulla crisi che continua a pesare sulle anime oltreché sui portafogli.

C’è un’America-mondo che – comprensibilmente – vorrebbe lasciare alle spalle e magari assolvere un decennio terribile: iniziato l’11 settembre 2001 nei grattacieli di Lower Manhattan e conclusosi esattamente nello stesso luogo il 15 settembre 2008. Non c’è da stupirsi se sono due vecchi cineasti newyorkesi – uno figlio dell’emigrazione italiana, l’altro di quella ebraica – a dirci che loro ne hanno viste troppe, a New York e dai New York, per farci prediche o profezie, per riscrivere le regole. Ma la storia – come gli show – deve continuare.