Anche il presidente della Bce, Mario Draghi, pone ormai il rilancio dell’occupazione “tout court” come sua preoccupazione prioritaria. Lo fa mantenendosi sottilmente sul terreno della presa di posizione individuale, parlandone comunque quasi quotidianamente da quando è iniziata la sessione autunnale dei lavori del Fondo monetario internazionale: in terra americana, dove la sua collega Janet Yellen già da mesi ha ancorato ai trend occupazionali Usa le scelte di politica monetaria dell’intero Fomc. Se d’altronde la numero uno della Fed ha sfidato senza timori le obiezioni dei colleghi accademici («Una banca centrale dovrebbe preoccuparsi soltanto del valore interno ed esterno di una moneta, di tassi e flussi di credito»), nell’eurozona stressare la disoccupazione di massa, soprattutto giovanile, significa attirare gli strali sicuri e minacciosi degli ideologi dell’austerità, seduti anzitutto nel governo della Repubblica federale di Germania e nel board della Bundesbank.
Che poi lo stesso Draghi sia approdato al vertice della banca centrale dell’euro nei panni del rigorista (anzitutto verso l’Italia, soltanto tre anni fa) è certamente un altro discorso, ma a un personaggio della sua levatura continuiamo ad attribuire l’onestà intellettuale affermata fra l’altro al Meeting di Rimini. Nel confronto quotidiano con la realtà, disse quattro anni fa, non deve mai venir meno il coraggio: anche di cambiare idea, evidentemente, se e quando le circostanze lo richiedono.
Yellen e ora anche Draghi, in ogni caso, stanno mostrando un coraggio specifico: quello di dichiarare i limiti dell’uso – e del possibile abuso – del principale strumento a disposizione delle rispettive banche centrali, cioè l’offerta di moneta. E poco importa se la Fed sta provando ad accelerare il “tapering” degli stimoli monetari – potendo rilevare un’indubbia ripresa dell’occupazione – mentre il capo della Bce stia alzando i toni (probabilmente invano) contro i ripetuti “nein” della Bundesbank a qualsiasi ipotesi di “quantitative easing” (Qe) in Europa.
Ciò che accomuna il Qe – ormai di ieri – negli Usa a quello che forse mai si farà nell’eurozona è la consapevolezza sempre più diffusa che combattere ciò che in Europa chiamiamo “crisi” con lo strumento della liquidità “in overdose” può essere inefficace o addirittura controproducente: basti pensare all’esito “deludente” della recente asta Tltro indetta dalla Bce per sollecitare le banche europee a dare più credito a un’economia intirizzita. La lezione di “Helicopter Ben” – l’ex governatore della Fed Bernanke sempre pronto a “bombardare” di liquidità qualsiasi crisi, dal suo bunker di Washington – sembra inesorabilmente obsoleta. Ma che fare?
In Italia – una delle aree più colpite da una recessione ai limiti della depressione – ha fatto rumore nell’ultima settimana un comunicato insolitamente positivo da parte di una grande comunità produttiva: quella degli imprenditori del legno e dell’arredo. Una presa di posizione insolita: nell’affermare un risultato concreto nella resistenza alla crisi da parte di un pezzo importante dell’Azienda-Italia e nel dare atto a due governi (quello di Enrico Letta e quello in carica di Matteo Renzi) di aver “fatto la cosa giusta”. Il bonus fiscale introdotto nel giugno scorso per l’acquisto fino a 10mila euro di mobili collegato a ristrutturazioni, ha generato quasi 2 miliardi di fatturato addizionale, 300 milioni di gettito fiscale collegato e soprattutto 10mila posti di lavoro salvati.
Premesso che sarebbe utile che anche altre associazioni imprenditoriali fornissero dati puntuali sul feedback di altri bonus correnti (50% per le ristrutturazioni edilizie e 65% per interventi di miglioramento energetico), alcune questioni si pongono naturalmente, anche solo in via qualitativa. La prima è: il bonus mobili è uno stimolo non monetario indotto per via fiscale e non per via bancaria; i risultati “restituiti” da FederlegnoArredo sarebbero stati possibili se la stessa spinta fosse giunta attraverso i canali macro della liquidità? In concreto: un allentamento indifferenziato del credito al consumo – sempre ammesso che fosse giunto realmente sul mercato – avrebbe sollecitato gli italiani a comprare 2 miliardi di mobili tanto quanto ha fatto lo sconto fiscale? Un allentamento generalizzato del “credit crunch” alle imprese avrebbe spinto le imprese del legno-arredo a far funzionare le catene e riempire i magazzini tanto quanto l’attesa creata dal bonus mobili?
Ma c’è dell’altro: mettere un catalizzatore fra domanda e offerta di mobili in Italia, vuol dire fare politica economica mirata. Vuol dire sostenere un pilastro dell’Azienda-Italia, un settore competitivo a livello globale, che ha reali “chance” di restare tale. Vuol dire “mettere in tasca” qualche euro ai cittadini (un “voucher”) per acquisti realmente “primari” presso aziende italiane, che pagano le tasse in Italia e creano posti di lavoro in Italia, per oggi e per domani. Vuol dire – e non vorremmo essere fraintesi – non restare prigionieri della logica secondo cui l’occupazione si rilancia “qui e ora” cancellando l’articolo 18; ma anche della non-logica – illusoria o peggio – dell’incentivazione fiscale diretta della “nuova imprenditoria giovanile, femminile, al Sud”.
Vuol dire che un piano “novecentesco” di costruzione di autostrade qualche risultato lo produrrà sempre: meglio ancora se gli investimenti pubblici andranno sulle infrastrutture innovative della banda larga. Ma le risorse fiscali – che saranno sempre limitate, anche quando al cancelliere Merkel gli altri leader europei strapperanno qualche bottone dalla blusa – possono essere dedicate ad altro.
Nell’Italia (Europa) del 2014 possono aver torto sia le forze politiche e sindacali che vogliono a tutti i costi un taglio delle imposte sulle famiglie; sia le forze imprenditoriali che si battono per un taglio generalizzato (“politico”) del cuneo fiscale sul versante produttivo. Draghi è stato chiaro: tutti coloro che non fanno nulla per creare occupazione vanno “cacciati”, così come chi investe poco e spesso male. Le risorse non possono essere cartamoneta stampata per l’occasione e gettata dagli elicotteri “a tutti”: meglio risorse vere – centellinate perché preziose – a chi porta i risultati nell’arco dell’anno fiscale.
Meglio il bonus mobili del Qe? Quel che è certo è che di fronte al comunicato di FederlegnoArredo la signora Merkel avrebbe più difficoltà di quante ne ha incontrate a ribattere al premier italiano e al presidente francese Hollande, l’altro giorno al termine del supervertice Ue di Milano sulla crescita. E a “mister Buba” – Weidmann – si potrebbe finalmente rispondere a tono: mentre il bonus mobili italiano ha operato con successo in Italia, l’euro era roccioso a 1.30 sul dollaro e l’eurozona era quasi in deflazione. La Bce non ha stampato e non stamperà euro fasulli: ma la Buba deve starsene contenta così.