Sulla famiglia Riva – in particolare su Emilio, morto lo scorso aprile a Milano, dov’era nato 88 anni fa – ciascuno può aver maturato nel tempo o esprimere oggi l’opinione che preferisce. Grande famiglia della Corporate Italia? Chi qui annota continua a pensarlo: nonostante tutto quanto possa aver accompagnato – anche nel caso dei Riva – una grande famiglia imprenditoriale. Anche e soprattutto nella sua stagione dell’Ilva.
Ci sono state dinastie imprenditoriali cui lo Stato ha regalato la Telecom in cambio di un investimento dello 0,6%: il risultato è stato una catena di disastri assai più gravi – per l’Azienda-Italia – di quelli pur serissimi provocati dall’Ilva a Taranto. La piastra siderurgica tarantina – quando la famiglia Riva se n’è fatta carico per intero, sgravandone lo Stato – non era certo il ricchissimo monopolista delle tlc ma un baraccone ripieno di ogni residuo tossico dell’assistenzialismo industriale meridionalistico. Certo, vi sarà sempre qualche professore – bocconiano o non – che avrebbe preferito una Taranto in formato Detroit: desertificata e con i libri in Tribunale. Ancor più “terra di nessuno” in mano alla criminalità organizzata di quanto – in parte – è già indubitabilmente oggi. Quel che è sicuro è che la famiglia Riva – nell’era della competizione siderurgica globale – ha generato ricavi dagli altiforni, pagato gli stipendi a fine mese: fino a che, l’anno scorso, il Tribunale, anzi la Procura non ha accusato i Riva di ogni male.
Su chi abbia commesso quali illeciti e come all’Ilva la giustizia sta facendo il suo corso ed è giusto così: anche se la determinazione della Procura di Taranto nel tutelare l’ambiente e nel perseguire le ipotesi di reato contro le esigenze industriali, occupazionali e sociali di Taranto sta tenendo accese le polemiche e spegnendo gli altiforni. Ieri, in ogni caso, un Gip di Milano ha accolto la richiesta di Piero Gnudi – professionista bolognese di scuola prodiana, ex presidente dell’Enel e oggi Commissario straordinario del Governo all’Ilva – di poter utilizzare liberamente 1,2 miliardi sequestrati al defunto Emilio e al fratello Adriano nell’ambito di un procedimento tuttora in corso per frode fiscale. I soldi andranno all’Ilva “in conto aumento di capitale” per finanziare parte del risanamento ambientale. Tutto bene?
No, almeno ad avviso di chi qui scrive. Quella montagna di quattrini potrà essere stata accumulata in modo “fraudolento” dai Riva a Taranto, ma questo lo deve decidere la magistratura in tre gradi di giudizio. Fino ad allora quel miliardo abbondante di euro è “in custodia cautelare”: esattamente come un indagato può essere arrestato sotto determinate condizioni di necessità ma anche di garanzia. E non perderà le sue libertà fino a che “il suo giudice naturale” non lo avrà condannato secondo procedure costituzionalmente definite.
Non è la prima volta che assistiamo a “procedure di estrema urgenza” (questa l’ordinanza del magistrato milanese ieri) sui ”soldi degli altri”, soprattutto se molti. Quasi dieci anni fa la Procura di Milano “arrestò” il 40% di AntonVeneta che la Popolare di Lodi aveva raccolto in una libera competizione di Borsa. Quattro mesi dopo un giudice milanese rivendette quel pacchetto ad Abn Amro (e ricorderemo fino alla noia che il gruppo olandese non aveva i quattrini per pagare, fallì l’anno dopo e rivendette l’AntonVeneta al Montepaschi, quello delle prima pagine di questi giorni sugli stress test Bce).
Ma c’è qualcos’altro che ancor di più sorprenderebbe negativamente: se il ministro della Giustizia del governo Renzi – Andrea Orlando, lo stesso che ieri ha definito “non normale” la procedura di interrogatorio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulla presunta trattativa Stato-mafia – non avesse nulla da dire sul “doppio sequestro” imposto ai Riva. È questa la civiltà giudiziaria che Renzi sostiene ogni giorno di voler ripristinare in Italia?