Se anche un economista “assoluto” come Luigi Zingales ammette su Il Sole 24 Ore che la recessione in Europa è “un problema politico” vuol dire che qualcosa sta cambiando: almeno nelle teste e negli atteggiamenti – se non nelle convenienze – dei professori e delle élite che li utilizzano come portavoce. Certo, può essere un po’ tardi e Zingales stesso dimentica un po’ troppo facilmente che tre anni fa proprio lui – assieme a molti altri – si sgolava a ripetere che l’economia parlava chiaro ed era inappellabile: la politica (il Governo di Silvio Berlusconi) doveva essere estromessa. Non c’era alternativa all’affidarsi all’economista-tecnocrate Mario Monti per applicare la ricetta “tecnica” prescritta da Mario Draghi, Presidente designato della Bce, su mandato del cancelliere tedesco Angela Merkel.



I leader di Germania e Francia si permettevano in pubblico ironie (politiche) sul Governo italiano, ma lo spread italiano a 575 consentiva poche repliche, che d’altronde un Monti non avrebbe neppure concepito. Veniva brandito, lo spread, come verità ultima dell’oggettività economica e quindi di un’etica politica rigidamente conseguente, anche se la valutazione del merito di credito sovrano era nei fatti una spada di Brenno. E all’establishment italiano, evidentemente, interessava l’effetto politico interno immediato rispetto alle ricadute economiche già allora prevedibili per gli anni successivi, dopo l’azzeramento della competitività esterna del sistema-Paese (politica prima ancora che economica).



Oggi anche uno Zingales – esemplare di cervello europeo assoldato dalla scuola di Chicago – riconosce fra le righe che il “pensiero unico”, l’economie d’abord, può essere un artificio intellettuale se non ideologico. Che, quindi, gli economisti rigoristi tedeschi possono “aver ragione” nel sostenere i loro “principi”: ad esempio, opponendosi alle operazioni straordinarie di politica monetaria espansiva che la Bce di Mario Draghi si sforza invano da mesi di varare per rianimare per questa via l’economia dell’eurozona.

Certo, la Germania “ha torto” laddove la performance economica dell’Eurozona è ormai letteralmente povera: ma è ormai altrettanto evidente che il problema è “politico”, non “intellettuale”. Che la “colpa”, ormai, non è (solo) della Germania che il mantra dipinge come “miope e irresponsabile nell’assumersi le responsabilità di leader dell’Ue, ecc.”; ma forse più dei paesi partner che non sono capaci di utilizzare politicamente le istituzioni Ue per far valere orientamenti diversi di politica economica, in campo monetario e fiscale. Che non ne sono più capaci anche perché svirilizzati nella loro opinione pubblica e nelle loro istituzioni nazionali dai mantra che hanno accompagnato sulle due sponde dell’Atlantico tutti i G20 seguiti al crac di Wall Street.



Il ragionamento che, infatti, neppure Zingales ha il coraggio di sviluppare fino alle conseguenze ultime è che il “successo” delle politiche economiche statunitensi – prodotto da stimoli sfrenati e in apparenza semi-permanenti sul piano monetario, valutario e fiscale – è in parte non piccola dovuto a una condizione strettamente politica: che l’Unione europea germanocentrica, negli ultimi sei anni, ha scelto di fare l’esatto contrario. Non ha stampato moneta, ha imposto ai suoi stati membri ferree discipline di bilancio e al suo sistema bancario un severo periodo di rieducazione patrimoniale e regolamentare. Non ha acceso guerre valutarie al ribasso contro cui d’altronde proprio il primo Draghi, da Francoforte, metteva in guardia. Ha fatto invece – l’Europa del “taglio di capelli” alla Grecia e della dieta deflazionistica all’Italia e altrove – ciò che i manuali di “buona economia” insegnano da sempre e che i commentatori economici italiani hanno suggerito in ogni tempo e sotto ogni bandiera.

Oltre Atlantico, invece, è sempre più chiaro che la stessa Amministrazione Obama ha maldestramente gestito la stabilità geopolitica in Ucraina o in Medio Oriente tanto quanto ha lasciato irrisolto (e impunito) l’ultimo tsunami finanziario a Wall Street. La liquidità a gogò erogata dalla Fed ha salvato banche, Borsa e debito pubblico Usa e ha tenuto il dollaro stabilmente svalutato verso l’euro. Doveva far così anche l’Europa? Cosa sarebbe accaduto agli Usa se l’Europa avesse fatto così? Se avesse salvato la Grecia al primo weekend? Se avesse consentito all’Italia la flessibilità di bilancio che oggi la Francia si auto-assegna in un soprassalto “politico”?

Nessuno può dirlo: neppure Zingales, che oggi si affanna a suggerire la ricetta americana al premier Matteo Renzi. Ma non prima di aver riconfermato la sua fedeltà a Draghi: il quale, peraltro, ha ormai compiuto un’inversione diametrale di rotta rispetto al suo avvento ai vertici della Bce. Un Draghi “amerikano”, che però è ormai stabilmente in minoranza nel governing council Bce (a proposito: non è sorprendente che la Francia che alza la voce in pubblico sulla flessibilità fiscale si accodi invece diplomaticamente all’inflessibilità tedesca sulla gestione dell’euro nel chiuso nelle stanze dei bottoni Bce?).

Will Mr Draghi have to go? Non abbiamo ancora letto il sinistro titolo con cui il New York Times “licenziò” il presidente dell’Eni Enrico Mattei, poche settimane prima della sua tragica morte. A parti invertite, il pressing dovrebbe giungere in tedesco, ma probabilmente non lo leggeremo mai. Un Draghi debole, una Bce “in folle”, neutralizzata nella sua governance, è forse la prospettiva più gradita alla Germania; che infatti – contro molte attese – nel 2011 preferì il banchiere italiano di scuola Goldman Sachs al proprio candidato Axel Weber, numero uno della Buba. Oggi è forse più Draghi preoccupato di aprirsi “un’uscita di sicurezza” nel caso in cui la sua posizione si facesse insostenibile. Il primo inquilino dell’Eurotower non ha più dietro di sé neppure il suo pur acciaccato Paese d’origine e il milieu di Wall Street (ovviamente tifoso di ogni espansionismo monetario) non è più strapotente come dieci o anche solo tre anni fa.

È fors’anche per questo che attorno alla rupture italiana di cui Renzi sta provando a venire a capo in questo scorcio di 2014 si stanno facendo più forti le tensioni attorno al Quirinale. Lo scenario di un abbandono rapido da parte di Giorgio Napolitano (premuto anche dagli sviluppi giudiziari a Palermo) è ogni giorno più realistico e l’approdo al Quirinale sarebbe per Draghi – e per i suoi molti e potenti supporter – un percorso ideale: per una ritirata tattica, politicamente efficace, dalla Bce e per un presidio rinnovato sul sistema-Italia.

In altri tempi sarebbe stato anche un percorso praticabile. Ma oggi Renzi non vanta solo una leadership e un’iniziativa politica che sta già facendo apparire obsoleta anche la vecchia tradizione tecnocratica nazionale. Vanta un forte accreditamento Oltre Atlantico (di cui il lungo viaggio recente coast to coast è un effetto non una causa) e – dopo il voto europeo di maggio – è divenuto il leader dell’opposizione Ue al merkelismo. Il politico Renzi è oggi molto più importante del tecnocrate Draghi, dentro e fuori l’Europa, per scuotere il monolitismo tedesco. Lo è dentro l’Europa per rompere la cappa di un rigorismo puramente “contabile” e innescare una ripresa vera, mentre altre macro-aree cominciano a perdere slancio. Lo è fuori dall’Europa per rimettere in gioco la macro-area più ingessata su uno scacchiere geopolitico che invece ha bisogno di nuove “balances of powers” (lo ridice, non a torto, il nonagenario Henry Kissinger, nel suo ultimo libro sul “disordine mondiale”).

Ècomunque su questo sfondo che i leader europei si riuniscono fra 48 ore a Milano per un vertice straordinario su ripresa e lavoro. Lo ha convocato Renzi, come presidente di turno dell’Unione: non tutti erano d’accordo (Berlino, dietro le quinte, ha provato a cancellarlo o ridimensionarlo). Sarà un summit politico che – anche Zingales potrebbe risultarne deluso – non prenderà decisioni: niente sospensione di parametri di Maastricht, niente tagli di tassi o fissazione di obiettivi di acquisto di titoli pubblici da parte della Bce. Difficile anche che Renzi rovesci sul tavolo la “ricetta americana” telle quelle. Più facile che faccia pesare i suoi voti, il suo prestigio crescente di leader della sinistra europea. E anche se non lo ammetterà mai, stavolta è Draghi che deve sperare che sia lui ad aprire qualche crepa dal nuovo muro di Berlino.