Il successore di Giorgio Napolitano sarà il primo presidente della Terza Repubblica: in un Paese che, a oltre 150 anni dalla nascita unitaria e a 70 dalla fine della dittatura fascista, deve reinventarsi quasi ai limiti della rifondazione. Una crisi economica con molti tratti strutturali la condizione di scenario prevalente di questo passaggio. Il crollo della finanza globale e le diverse ricadute economiche hanno colpito duramente l’Italia: più duramente che in ogni altro Paese del G-8 o delle aree emerse/emergenti del pianeta.
Chiunque verrà eletto al Quirinale, qualunque sarà il suo stile istituzionale, sotto la sua presidenza l’azienda-Paese dovrà cercare un “new normal” che – ormai è chiaro – non sarà un semplice uscita congiunturale dalla recessione: sarà un riposizionamento complessivo dei fondamentali economici dell’Italia (e quindi dei suoi standard sociopolitici). Il Pil italiano non cresce più dal secondo trimestre 2011. I giovani sono disoccupati al 40%. Il debito pubblico continua a galleggiare sulla linea rossa, almeno su quella concordata con i partner Ue. Una banca italiana capeggia la lista dei bocciati al primo stress-test della Bce in veste di vigilante europea.
Per certi versi, come il suo amico e coetaneo papa Benedetto XVI, Napolitano ha preannunciato le sue dimissioni – anche se meno inattese – per dare una scossa: per mettere davanti alle loro responsabilità non solo e forse non tanto le forze politiche alle prese con legge elettorale e riforma dello Stato; ma principalmente le forze economiche e sociali di un Paese che il quasi novantenne Capo dello Stato – il primo a essere rieletto nella storia repubblicana – ha certamente l’orgoglio di aver retto in piedi in tre anni di estrema difficoltà.
Ecco, la prima sfida che Napolitano pone da oggi lasciando la massima carica del suo Paese è forse questa: non cacciarsi più in una situazione in cui – nell’estate del 2011 – il presidente della Repubblica debba agire ben oltre il suo mandato di garante istituzionale, assumendo un ruolo quasi esecutivo nella gestione della crisi economico-finanziaria. Una parte dei player e osservatori del dopo-Napolitano tende a dare per scontata la chiusura di questa fase proprio per e con il cambio della guardia al Quirinale.
Fra questi, almeno fino a oggi, c’è il Premier Matteo Renzi, di cui è nota la preferenza per un futuro Presidente di alta rappresentanza. Una donna che segni anche la rottura con le presidenze “pesanti” della Seconda Repubblica: da quella di Oscar Luigi Scalfaro, maturata dopo le bombe di Capaci, a quella del banchiere centrale Carlo Azeglio Ciampi.
A rischio di passare per “gufo”, chi tiene questa nota resta fra coloro che non danno affatto per scontato che il Pil italiano – soprattutto il reddito pro-capite – tornerà a crescere “come prima”. E quindi – in stretto parallelo – si chiede se l’Italia – in attesa delle riforme istituzionali che sempre “hanno da venire” – possa oggi permettersi un classico presidente della Repubblica federale tedesca “di cui molti non sanno il cognome ed è bene così”.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Italia ebbe la capacità di edificare la Prima Repubblica con il ticket composto da Luigi Einaudi al Quirinale e Alcide De Gasperi a Palazzo Chigi. Avevano tre grandi compiti contemporanei: ritirar fuori un Pil accettabile da un Paese semidistrutto e prima ancora autarchico; far funzionare una nuova democrazia con forze politico-sociali nuove; collocare il Paese dove la storia (e non solo quella scritta dalle potenze vincitrici nel 1945 a Yalta) l’avevano posta, ma dove non era scontato riuscisse a restare.
Gli obiettivi furono raggiunti tutti e tre: ed Einaudi non si limitò certo a recitare da vecchio gentleman piemontese a fianco dell’eccezionale talento di uomo pubblico di De Gasperi. L’economista liberale – che traslocò al Quirinale dalla Banca d’Italia e dal ministero del Bilancio creato apposta per lui – fu essenziale nel pilotare l’exit strategy italiana dalla crisi economico-finanziaria portata da anni di guerra e nel far rientrare l’Italia nel consesso delle democrazie di mercato euratlantiche. La sua forte credibilità – all’interno del Paese ma soprattutto all’esterno, fra economia e istituzioni – moltiplicò quella tutta politica di De Gasperi: capace di ridare morale e coesione civile all’intero Paese; di cooperare con gli altri partiti nel varo di una Costituzione repubblicana e poi di imporsi alle prime elezioni democratiche con numeri tali per rimodellare poi da cima a fondo l’Azienda-Paese. Che nel decennio 1953-1963 raddoppiò il reddito pro-capite e portò la disoccupazione alla soglia incomprimibile del 3%.