“Il tempo si è fatto breve” era frase cara all’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio: l’ultima “autorità bancaria” convinta che il sistema creditizio domestico avesse bisogno di “piani regolatori” assai più che di aggregazioni dettate dal mercato. Chissà come Fazio avrebbe disegnato – o almeno provato a orientare – il nuovo risiko italiano, che si annuncia all’indomani degli stress test Bce e dell’avvio della vigilanza europea. Chissà se, nel suo ritiro forzato, condivide le prime indicazioni di “moral suasion” che – si dice – giungerebbero direttamente da Francoforte: con la Banca d’Italia di Ignazio Visco in funzione di filtro attivo.



Di un primo input – l’ipotesi di fusione fra Carige e Bpm – Piazza Affari ha già mostrato di essere a conoscenza, apparentemente gradendolo. Una seconda ipotesi di lavoro – più impegnativa – è invece ancora un rumore di fondo: è l’aggancio di Mps a Ubi Banca. Nessuno dubita che la stabilizzazione vera di Montepaschi e Carige – due gruppi in seria crisi – passi soltanto attraverso un’aggregazione. Al di là delle cause strategiche e degli esiti finanziari, si tratta di due fallimenti d’impresa. E sia il mercato (che ha visto compromessi i suoi investimenti) che il vigilante (obbligato a intervenire quando vien meno la “sana e prudente gestione” di un’istituzione vigilata) non dovrebbero avere esitazioni: il primo a non concedere ulteriori capitali, il secondo a togliere un’autonomia non meritata.



È vero che sia Genova che Siena hanno risposto alle bocciature da stress test con il lancio di aumenti di capitale: risposta del resto quasi obbligata. È pur vero che sia per Carige che per Mps si sono precostituiti due consorzi di garanzia per raccogliere rispettivamente 800 milioni e 2,5 miliardi. È anche vero che – soprattutto a Genova – molte forze sono al lavoro per aggregare capitali locali attorno a un progetto credibile di rilancio “stand alone” della Cassa attorno al nuovo Ceo Pietro Montani. Su Siena grava peraltro una cappa di incertezze miste legate al disimpegno del presidente Alessandro Profumo e del Ceo Maurizio Viola, al futuro della Fondazione un tempo proprietaria, alle mosse dei fondi sudamericani che avevano puntato su Mps nel recente aumento da 5 miliardi.



Non sorprende quindi che le ipotesi di aggregazioni siano già più che fogli di carta sui tavoli delle authority. E non stupisce neppure che – tra Francoforte e Roma – si guardi a una strada apparentemente non facile: la combinazione di una banca pubblica finora controllata da una Fondazione maggioritaria con una banca cooperativa, com’è storicamente la Popolare di Milano e com’è rimasta Ubi dopo la fusione fra la Popolare di Bergamo e la Banca Lombarda. Da un lato due banche che hanno violato tempi e spirito della legge Amato (Carige e Mps non si sono mai veramente privatizzate e hanno sempre rifiutato la crescita attraverso le fusioni). Dall’altro due grandi Popolari italiane, in quanto tali oggetto di una pressione crescente da parte dei mercati che non hanno mai accettato titoli bancari quotati in Borsa ma protetti dal voto per testa, dai limiti di possesso, dall’impossibilità sostanziale di scalare o fondere.

La Bpm, in particolare, è sempre stata alle cronache per l’autocontrollo da parte dei dipendenti soci: ritenuto la causa di crisi temporanee che peraltro sono costate alla Milano le ganasce degli “add on” in bilancio, responsabili della semi-bocciatura all’ultimo stress test. I fari non benevoli verso Ubi sono invece più controversi: guardano al ruolo di dominus che Giovanni Bazoli avrebbe anche fra Brescia e Bergamo e non slo fra Milano e Torino come demiurgo di Intesa Sanpaolo.

È comprensibile in ogni caso l’ambizione oggettiva dei due (seri) tentativi di “suasion”: abbinare al consolidamento post-crisi del sistema italiano due momenti di superamento di altrettante situazioni di controllo Fondazioni maggioritarie e cooperazione ritenute obsolete e perfino dannose nel “new normal” bancario. Nessuno vieterebbe alle Fondazioni di Genova e Siena di restare azioniste minoritarie delle loro banche (come accade già da tempo in UniCredit e in Intesa Sanpaolo). Nessuno proibirebbe ai dipendenti soci della Milano di rimanere tali e fors’anche di restare organizzati in una concentrazione bancaria fra Carige e Bpm (e magari con altri gruppi ancora). Ma è evidente che ambedue le operazioni maturerebbero in nuovi contenitori di Spa contendibili. Ed è quindi comprensibile che – a oggi – i mercati assegnino a entrambe le ipotesi un basso grado di probabilità di sviluppo, tanto meno di successo. Troppo forti le prevedibili resistenze: a Brescia come a Siena, a Piazza Meda come in Carige.

A Genova, in ogni caso, il progetto di rilancio considera già punto fermo l’intervento del finanziere Andrea Bonomi: protagonista di un singolare esperimento triennale in Bpm. La Banca d’Italia dell’ultimo Mario Draghi ci puntò in modo innovativo per far crollare “il muro Bpm”. Ora non sorprende che la Bce di Mario Draghi ci riprovi. E il tempo, chioserebbe ancora Fazio, “si è fatto breve”.