Henry Kissinger – anzi, Heinz Kissinger, nato in Germania nel 1923 – ha appena mandato in libreria “World Order”. Non è detto sia l’ultimo libro dell’ex segretario di Stato americano, che avviò la distensione con la Cina maoista e con la Russia sovietica, strappando il Nobel per la fine della guerra in Vietnam. Però, a 91 anni, anche un super-diplomatico capisce che è tempo di testamento, anzi di una testimonianza finale: quelle poche cose che hanno fatto da bussola a un uomo che ha schiacciato qualche bottone della storia e che desidera lasciare in eredità a chi vivrà la storia dopo.
Bene, questo tedesco israelita di 91 anni, fuggito dall’Europa totalitaria e adottato prima ad Harvard e poi nei palazzi di Washington, rivendica le radici europee dell’idea e della tecnica dell’”ordine mondiale”: che da più di tre secoli si mostra più forte di tutte le guerre inevitabili o inutili, di tutte le paci sempre precarie, di tutte le crisi internazionali dettate da interessi economici, ideologie, fanatismi, avventurismi.
A metà del ‘600, alla fine della Guerra dei Trent’anni, il Vecchio Continente è letteralmente a pezzi: non meno che dopo i due autodistruttivi conflitti del primo ‘900. È allora, ricorda Kissinger, che s’impone un “new deal”‘, un “nuovo modo” di regolare le relazioni fra i nuovi Stati sovrani (allora in Europa, poi nei “nuovi mondi” del globo). Nel Trattato di Westfalia del 1648, è’ vero, si stagliano i nuovi Stati-nazione responsabili poi di tante guerre. Ma, sottolinea Kissinger lungo tutto il libro, viene piantato nella storia un principio nuovo: ogni pace, per quanto difficile, e ogni progresso, per quanto discontinuo o diseguale, possono maturare solo in fasi successive di equilibrio e riequilibrio; su “bilance” politico-economico-culturali che chiamano in causa sempre tutti gli attori.
Sbaglia un Paese leader, in una determinata fase storica, a esercitare solo il potere e non le responsabilità del proprio ruolo. Sbagliano anche i paesi apparentemente più deboli o subalterni a non esercitare tutte le pressioni geopolitiche per contenere o indirizzare forze “egemoniche” apparentemente non controllabili.
Il libro è una rilettura avvincente della storia recente in chiave “westfaliana”: di ricerche faticose, spesso interrotte ma sempre riannodate, di una convivenza-competizione il più possibile pacifica, il più possibile “progressiva”. Oggi, secondo Kissinger, i “player” del Grande Gioco globale sono ancora gli Usa, sia pure, però, un po’ superati dalla storia sia nel ruolo “tecnico” di “leader intelligente”, sia in quello “politico-ideale” di depositari e promotori di modello ritenuto preminente come la democrazia di mercati.
Anche gli altri attori al tavolo dell’equilibrio “westfaliano” del XXI secolo sono identificabili: anzitutto la Cina, per cui Kissinger ha un vecchio debole, anche se il suo emergere di potenza economica autocratica è un formidabile segno di contraddizione culturale sulla scena storica. Lo è, analogamente, il radicalismo nazionalistico-religioso dell’Islam. Ma il vecchio studioso e legittimo erede – del principe – di Metternich non ha dubbi: la logica della bilancia dei poteri è obbligata, tra fasi di “confrontation” e fasi di distensione e di stabilità. L’unica scelta sempre perdente è non guardare in faccia la realtà o guardarla solo con i propri occhiali.
Questo vale per la Russia di Putin che deve uscire dal dilemma storico fra Occidente e Oriente (fra Unione Europea e Cina), ma questo vale soprattutto per l’Ue stessa: dove la campana “westfaliana” suona proprio per la Germania. Se un Paese è leader, il suo posto è quello di perno e ago della bilancia: non quello di peso su un solo piatto. Di guida del continente, ma non come la intendeva il cancelliere dal 1933 al 1945. La signora Merkel, che i tedeschi del dopo muro hanno scelto anche se è nata nella Germania “ex sovietica”, non può vantar diritti di veto, ma di proposta certamente sì. Su questo non è certo in disaccordo Kissinger, che non avrebbe mai potuto candidarsi alla Casa Bianca proprio perché nato in Germania.