Standard & Poor’s insiste: dopo aver declassato il rating sovrano della Repubblica e delle Generali  (maggiore istituzione finanziaria del paese), sono arrivati a ruota gli “allineamenti al ribasso” di Mediobanca, Intesa Sanpaolo e UniCredit. Downgrading automatici, ma solo per le prime della classe: gruppi come Ubi Banca e Bpm hanno visto invece confermati i giudizi di affidabilità creditizia. Le valutazioni sono certamente destinate a rinfocolare le forti reazioni polemiche al taglio del rating per il Leone di Trieste: un «paradosso» per il Corriere della Sera; una decisione «intollerabile» secondo il Sole 24-Ore. L’agenzia “sovrana” (assieme a Moody’s) si è vista costretta a replicare — proprio ieri mattina — con lettere puntigliose a entrambe le testate: senza peraltro rinunciare al tono ultra-tecnico; al sostanziale muro di gomma sulle accuse di opacità; alla firma di oscuri “senior executive” di Londra. Scontato, in ogni caso, il succo: S&P’s ha i suoi standard noti, trasparenti e frutto della miglior ricerca nel campo della stima del rischio finanziario; valgono per tutti e una banca o un’assicurazione non possono avere un rating superiori a quello del paese di residenza, eccetera eccetera.



Le regole e i giudizi conseguenti di S&P’s sono gli stessi che, all’inizio dell’estate di tre anni fa, colpirono duro l’Italia. Lo spread tricolore schizzò in poche settimane a 575, Il Sole 24-Ore titolò a caratteri cubitali “Fate presto” (a cacciare il governo Berlusconi-Tremonti), il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dovette nominare Mario Monti senatore a vita per insediarlo come premier tecnico e il Corriere della Sera applaudì — almeno inizialmente — all’ascesa a Palazzo Chigi di un suo editorialista trentennale. Il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, designato al vertice Bce, co-firmò nel frattempo una lettera che imponeva al governo italiano un’austerity parecchio fotocopiata dallo “statement” dell’agenzia americana. Le banche italiane — si disse e scrisse — furono pietosamente salvate dalla prima asta di liquidità straordinaria decisa dalla Bce (tre anni prima che il bagno di liquidità fosse invocato da Draghi e sostenuto dagli Usa come toccasana per la recessione deflattiva nell’intera eurozona). Le stesse banche italiane subirono voti implacabili al primo stress test dell’Eba, proprio perché i loro bilanci erano forzatamente pieni di Btp a rischio giudicato altissimo (oggi la recessione italiana, in mezzo a quella europea, fa paura eppure lo spread è al minimo storico, ormai quasi un quarto di quello del novembre 2011).

Solo nel 2012 un’oscura e periferica magistratura italiana — la Procura di Trani — mise sotto inchiesta Standard & Poor’s per manipolazione dei mercati (e non sta mollando): ma nessun grande organo d’infomazione italiano titolò a caratteri cubitali in prima pagina. 

Più tardi S&P’s ebbe l’ardire di togliere la tripla A agli Stati Uniti d’America: il presidente Barack Obama era all’inizio del secondo mandato e qualche malizioso scrisse che a Wall Street qualcuno temeva qualche libertà politica sul fronte della ri-regolamentazione del settore finanziario. La posizione di S&P’s mantiene il pregio oggettivo della monotonia nel tempo e nello spazio: abbiamo le nostre regole, il mercato ci chiede (ci paga) per rispettarle e si fida delle nostre “verità” anche quando appaiono soltanto “mezze”, a orologeria, diseguali da paese a paese. Ma non ci preoccupiamo mai dei giornali, tanto meno di quelli italiani: tanto più se rovesciano da un anno all’altro le opinioni su di noi.