Salvo colpi di scena, Matteo Renzi sarà – meno che quarantenne – il più giovane premier dell’Italia repubblicana. Ma fino a quando il sindaco di Firenze non avrà giurato al Quirinale, il primato rimarrà a Gianni Goria, scomparso da quasi vent’anni. Il politico piemontese divenne capo del governo a 43 anni e decisivo per la sua ascesa fu il cursus di ministro del Tesoro, iniziato a soli 39 anni e protrattosi per l’intero ministero Craxi, uno dei più importanti dell’intera storia nazionale.
Tipico prodotto della sinistra Dc settentrionale (il cui capo indiscusso è al tempo Albertino Marcora), al suo approdo in via Venti Settembre, nel 1982, il quasi sconosciuto Goria vanta in curriculum una buona laurea in Economia all’università di Torino, un incarico di Capo Ufficio studi alla Camera di commercio di Asti e tanta politica “di strada”. I suoi concittadini lo eleggono deputato a 33 anni e a Roma fa gavetta come sottosegretario al Bilancio.
Quando arriva al Tesoro stabilisce subito un rapporto di stima reciproca con l’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi. Quando va a Bruxelles segue le orme del suo maestro Giovanni Marcora, che sulla “politica verde” non accetta imposizioni, semmai detta lui le soluzioni alla Cee. Quando il suo mentore Ciriaco De Mita non riesce – o non vuole – più proteggerlo, Goria è stritolato dall’alleanza finale della Prima Repubblica (fra Craxi e Giulio Andreotti) ed esce fin troppo presto da Palazzo Chigi, prima di morire altrettanto prematuramente.
Molti anni dopo, il 39enne (democristiano) Renzi si sta scornando da giorni contro tutti i tentativi di frenarne o neutralizzarne il cammino verso Palazzo Chigi. E il primo, vero “muro” difficile da abbattere il “demolitore” toscano lo sta trovando proprio in via Venti Settembre. Ma la scelta del ministero dell’Economia (che da tempo associa le Finanze al Tesoro) non è più questione da risolvere tra leader del pentapartito proporzionalista la notte insonne prima del giuramento: è questione che appare di ora in ora sempre più profonda e strategica per le fondamenta della Terza Repubblica. Per questo, già all’indomani dell’incarico, avevamo segnalato su queste pagine che una potenziale debolezza del progetto-Renzi è il non avere in squadra una figura come quella di Giulio Tremonti.
Tollerato per quasi un ventennio, più volte sconfessato e perfino allontanato da Silvio Berlusconi, Tremonti era però un ministro “bell’e pronto” già nel 1994: un professore brillante e un editorialista del primo quotidiano nazionale; un avvocato d’affari affermato e un consulente ascoltato da ministri, un militante “senza se e senza ma” di un partito “new” come il Psi degli anni ‘80. Non è un caso che un veloce revisionismo storico – avviato da osservatori lontani dal centrodestra – confermi che aver escluso Tremonti nel 2011 dalla successione al Cavaliere a favore di Monti è stato probabilmente un errore: non per il valore personale del premier bocconiano, ma per la resa che esso ha finito per impersonare sia sullo scacchiere politico interno che su quello europeo.
Non è neppure una coincidenza che le forze para-tecnocratiche che oggi premono su Renzi perché confermi Fabrizio Saccomanni all’Economia usino come argomento quasi unico la presunta assenza di figure politiche in grado di reggere un’intercapedine cruciale fra il sistema-Italia e il “sovra-stato” europeo nelle sue diverse declinazioni (moneta, banche, finanze pubbliche, antitrust, ecc.). La realtà va per certi molti versi letta a rovescio: la conclusione del ventennio berlusconiano è anche quella – incarnata da Tremonti – di un tentativo di fronteggiare l’avanzata egemonica dei mercati e dei loro fiancheggiatori tecnocratici.
Certo che Mario Draghi a Francoforte vorrebbe la riconferma in via Venti Settembre di Saccomanni, suo ex numero due in Bankitalia. Certo che il presidente della Bce si permette perfino di osteggiare la chiamata a Roma del suo predecessore italiano nell’esecutivo Bce, il fiorentino-tremontiano Lorenzo Bini Smaghi. Certo che sminuisce – non gradendola – qualsiasi candidatura politica: a cominciare da quella di Graziano Delrio, un curriculum non diverso da quello di Goria (reso anzi probabilmente più solido dal passaggio alla presidenza Anci). Certo, Delrio non è il ministro “bell’è pronto” che Berlusconi si è tenuto stretto per vent’anni, pur geloso alla fine del ruolo forte che Tremonti aveva assunto sullo scacchiere finanziario pubblico e privato fra Milano e Roma e un po’ anche fuori d’Italia. Però da qualche “breccia” in Via Venti Settembre Renzi dovrà pure entrare e far rientrare la politica. Perché se Renzi è il personaggio che non solo il centrosinistra si è abituato a immaginare, deve dimostrare che l’Italia non è (ancora) il Botswana, dove un funzionario del Fondo monetario internazionale può atterrare una mattina e alla sera aver già imposto misure draconiane “esemplari“. Come la patrimoniale.