Può sembrare un paradosso, ma nei tre anni della grande emergenza economico-finanziaria il sistema bancario italiano ha potuto godere di una relativa e specifica stabilità nella sua “Costituzione materiale”: nei suoi assetti di controllo e governance. La durezza della recessione, la pressione speculativa sullo spread, l’austerity da cavallo imposta al Paese, il “progress” severo dell’Unione bancaria, degli stress test, di Basilea 3. Dall’estate 2011 a oggi le banche italiane sono state costantemente sotto pesantissimo assedio, da ogni lato: bilanci, regole, quotazioni di Borsa, immagine sul mercato di famiglie e imprese, atteggiamento delle authority assortite.
Un grande gruppo, il Montepaschi, non ha retto la prova. Eppure oggi, quando Matteo Renzi si presenta in Parlamento, la struttura proprietaria di Mps non è granché cambiata rispetto a prima della grande crisi, addirittura rispetto alla quotazione di 15 anni fa, nel caso senese persino a prima della legge Amato. Certo, lo Stato è intervenuto a Rocca Salimbeni con un prestito di salvataggio, ma la Fondazione è ancora lì, come socio di maggioranza. Certo, il presidente è cambiato, ma Alessandro Profumo non è un “homo novus”: la sua storia di banchiere nasce con le privatizzazione del Credit, decisa dal governo Ciampi, alla fine della Prima Repubblica. Profumo era uno smagliante 39enne (come Renzi oggi) nel lontano 1995, quando divenne direttore generale in Piazza Cordusio.
E alla Popolare di Milano? L’“homo novissimus” – il finanziere Andrea Bonomi – spinto a forza da mercati e Bankitalia per rivoluzionare una banca ritenuta modello negativo di cooperazione creditizia quotata in Borsa, è già tornato a fare private equity da Londra. A dirigere il traffico in Piazza Meda – quello di sempre: dipendenti-soci e fazioni sindacali – è tornata una figura “very old” come Piero Giarda: un classico professore della Cattolica, over 70, più volte in prestito a governi tecnici. Potremmo continuare a lungo, ma tagliamo corto, saltellando qua e là. A commissariare Carige c’è andato Piero Montani, ultimo amministratore delegato della decadente Popolare di Novara.
Intesa Sanpaolo, dopo 31 anni, ha confermato Giovanni Bazoli alla presidenza e messo – cautamente – in lista di successione Gian Maria Gros Pietro, ultimo presidente dell’Iri. A UniCredit Federico Ghizzoni – uno dei luogotenenti di Profumo – gestisce l’esistente con il mix proprietario storico di UniCredit: le Fondazioni di Fabrizio Palenzona e Paolo Biasi; l’Azienda-Germania del presidente Giuseppe Vita; il fondo Aabar chiamato dal Golfo ancora con Profumo in carica dopo un primo tentativo con la Libia di Gheddafi allora in carica; un manipolo di imprenditori-finanzieri italiani, con un Caltagirone in più e un Ligresti in meno nell’azionariato e con Luca di Montezemolo di passaggio in consiglio.
È un’osservazione, ben intenso, non un giudizio. È uno stato delle cose – con i suoi punti di forza e di debolezza, con le sfide vinte e quelle perdute – la cui ultima “foto di famiglia” risale al giugno 2012: Palermo, congresso del centenario dell’Acri. Chairman: Giuseppe Guzzetti, leader della Fondazione Cariplo, “dominus” di Intesa Sanpaolo, co-dominus della Cassa depositi e prestiti (oggi più importante di Mediobanca), uomo-chiave su cento tavoli (oggi anche sul riassetto di Mps). Key-note speaker: Fabrizio Saccomanni, direttore generale della Banca d’Italia, vero capo della vigilanza anche dopo il cambio della guardia fra Mario Draghi e Ignazio Visco, e futuro ministro dell’Economia con Enrico Letta. Guest star: il premier Mario Monti, che per nulla al mondo si sarebbe perso la videoconferenza da Palazzo Chigi, con duetti di alta classe con Guzzetti sulla Grande Milano di ieri e di oggi; perfino con sottili ironie su Angela Merkel e le magagne delle Sparkassen tedesche.
A questo punto, in passato, un articolo come questo avrebbe provato a dipanare la matassa del “what next”, del “cosa succede adesso”. Le Fondazioni saranno la piattaforma del primo Renzi (grande stakeholder dell’Ente Carifirenze) o il suo primo bersaglio, come provò Giulio Tremonti, più di Tremonti? Le Popolari vanno difese o aperte con l’apriscatole? Etihad in Alitalia prelude a una crescita di Aabar in UniCredit o magari all’ingresso degli emiri a Siena oppure le grandi banche non si toccano? Blackrock al 5% in Intesa Sanpaolo – così a buon mercato in Borsa, ci mancherebbe – segna l’”inizio della fine” del monopolio delle Fondazioni nella “banca di Bazoli”? Beppe Grillo – vero antagonista “maledetto e subito”, vero “nemico da abbattere” fra cento giorni al voto europeo – si combatte meglio “da destra” (difendendo le banche italiane in Europa, ma usandole “senza pietà” all’interno per rilanciare il Paese); oppure “da sinistra”, spianandole secondo i dettami ultraliberisti di un Giavazzi o di un Boeri?
Il vostro modesto commentatore non ha né il nome né l’esperienza di Eugenio Scalfari: che, comunque, ieri su Repubblica ha confessato di non avere capito cosa sia veramente accaduto nell’ultima settimana in Italia. Di non saper spiegare ai suoi lettori – dopo quasi quarant’anni alla testa del maggior quotidiano progressista nazionale – come e perché il leader del principale partito del centro-sinistra sia approdato alla guida del governo del Paese. Anche Scalfari si è alla fine accodato a quanti concordano su due presunzioni: che neppure Renzi sappia veramente quali saranno i suoi punti d’arrivo; che si regoli comunque su due standard: far presto e cambiare. Fare (subito) l’esatto contrario di quello che ci aspetta da lui.