“Life or football, it’s just a game of inches”, dice Al Pacino in una performance entrata nelle antologie di Hollywood: è sempre una questione di centimetri. Il Corriere della Sera taglierà altri e più decisivi centimetri al suo formato, dopo quelli eliminati quasi una decina di anni fa, per scendere dal classico broadsheet Times a nove colonne fino alle sette del cosiddetto berliner. Ora il passaggio al tabloid (tecnicamente 17×11 inches) mangerà altri centimetri quadrati alle pagine del quotidiano che ha scandito ininterrottamente gli ultimi 138 anni di storia nazionale. E sarà sì, alla fine, una questione di centimetri: ma non solo.
Quasi sessant’anni fa – ma sembra ieri – a Milano nacque un concorrente del Corriere. Si chiamava Il Giorno e per rimarcare la sua diversità (modernità) rispetto a via Solferino aveva anzitutto una colonna in meno. Non solo una questione di centimetri. Pochi mesi prima l’editore-inventore del Giorno, il presidente dell’Eni Enrico Mattei, aveva imposto per la prima volta un democristiano al Quirinale: Giuseppe Gronchi (per gli amatori della cabala politica un dc toscano di sinistra). A metà anni ‘50 arrivò in edicola anche L’Espresso, settimanale broadsheet “a dorsi”, presto corredato di un innovativo inserto culturale rotocalco. Sarà quest’ultimo l’incubatore del magazine definitivo, mentre gli originari “lenzuoli” politico-economici dell’Espresso si clonano nel tabloid di Repubblica: allora drastico come la scalata del Pci di Enrico Berlinguer al primo partito del Paese, come rievocava giusto ieri Eugenio Scalfari.
Il tabloid, sicuramente, costava meno del broadsheet nel 1976 così come consentirà risparmi al problematico bilancio Rcs nel 2014. Certo l’effetto-tabloid di quarant’anni fa – Repubblica che si indossava ben ripiegata in tasca, come distintivo di una sinistra democratica e non estremista – si annuncia meno facile per il Corriere: e non solo perché negli stessi centimetri quadrati tasche o zaini contengono oggi più facilmente un tablet, oggetto più multiforme, cangiante misterioso di una testata-scelta nel post-Sessantotto; ma anche perché – “life or football” – per un giornale la vera questione resta quella che il coach Al Pacino in “Ogni maledetta domenica” agita davanti alle facce spaventate dei suoi giocatori pochi minuti prima di un superbowl: mai fermarsi per paura un centimetro prima, mai farsi trascinare dalla foga un centimetro dopo. Occorre lanciare e ricevere il pallone sempre al momento giusto, al centimetro giusto.È la somma di tutti quei centimetri, urla Pacino, a fare the fucking difference between winning and losing, between living and dying.
Com’è il mondo visto da via Solferino oggi che la “borghesia lombarda” – come molta della sua industria e della sua finanza – non è più immediatamente riconoscibile? Ora che la vita pubblica italiana sta archiviando più di trent’anni molto “milanesi” (da Craxi a Berlusconi, ma passando anche per Prodi)? Ora che non c’è più il Cesare Romiti “formato Mediobanca” a mediare fra Torino e Roma? Ora che si va appannando il ruolo di Giovanni Bazoli, subentrato in duumvirato con Cesare Geronzi ai garanti storici, Enrico Cuccia e Gianni Agnelli?
E via proseguendo: senza dimenticare – tutt’altro – che l’annuncio-choc sul Corriere-tabloid è forse anzitutto il tentativo di un top management e di una direzione editoriale di svincolarsi dalla sabbie mobili ormai paralizzanti, rimescolate da soci perennemente litigiosi alla fine sempre a corto di capitali, idee, reale impegno sull’impresa-Corriere. “All the inches we really need are around us…that’s football, gentlemen, that’s a team, that’s all it is… Now, what are you gonna to do?”.