Il presidente dell’Eni Giuseppe Recchi è dunque il candidato ufficiale alla successione di Franco Bernabé, dimessosi alla presidenza di Telecom oltre sei mesi fa: cioè dopo l’accordo di principio raggiunto fra i grandi soci Telco per il rafforzamento progressivo di Telefonica fino al controllo del gruppo. La “vacatio” è stata problematica e ha via via bruciato la candidatura interna dell’Ad Marco Patuano, quelle esterne dell’Ad di Poste italiane Massimo Sarmi o dell’ex ministro Corrado Passera; e l’ipotesi di ritorno di Vito Gamberale (il padre di Tim) o di Gabriele Galateri di Genola, oggi alle Generali. L’emergere del nome di Recchi, ora, segnala anzitutto l’intento sostanziale di tutti o quasi gli attori in campo di raffreddare uno “status quo” difficile.
Fin dall’inizio è stato evidente che Telefonica non fosse impaziente di far compiere un definitivo salto di qualità a una partnership che finora ha dato a Madrid più grattacapi che soddisfazioni e che non promette di darne nell’immediato futuro: lo hanno confermato gli ostacoli subito alzatisi per il possibile sganciamento di Telecom da Tim Brasil, l’unico reale interesse strategico di Telefonica. La partita brasiliana, d’altronde, è stata utilizzata al massimo da Findim (Marco Fossati) per rialzare il livello della conflittualità interna all’azionariato e alla governance: una situazione di instabilità che, sul mercato, ha registrato l’attenzione di un attore come il megafondo BlackRock. Nel frattempo la lunga transizione politica interna ha congelato ogni prospettiva immediata di scorporo della rete Telecom verso la Cassa depositi e prestiti. E i grandi soci italiani di Telco?
Per Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo l’orientamento formale non cambia e conferma la dismissione di una partecipazione ingombrante e lontana dalla rifocalizzazione strategica annunciata da tutte e tre le istituzioni. Però lo scenario è cambiato rispetto all’autunno 2013, quando la svolta in Telco suonò per certi versi come un disimpegno deluso e polemico della City milanese, sotto forte pressione concentrica (mercati globali e recessione interna, regole bancarie europee, magistratura, parlamento “grillino”, ecc.). Benché la stagione degli interventi bancari “di sistema” sembri superata, non c’è dubbio che attorno al settore creditizio domestico l’aria sia meno pesante.
L’avvento di Matteo Renzi a Palazzo Chigi segna comunque una soluzione di continuità anche per i grandi dossier-Paese come Telecom, benché (per paradosso) per il gigante delle tlc si profili a breve una probabile stasi. L’indicazione di Recchi sembra avere su questo terreno tutte le caratteristiche di un effettivo momento di stabilizzazione in Telecom. L’ex presidente di Ge Italia, ora uscente all’Eni, ha il profilo pieno del top manager di scuola statunitense: perfino più accentuato di quello già inconfondibilmente “atlantico” di Bernabé. Si presenta senz’altro come figura di garanzia sia per la cruciale dimensione geopolitica di un grande operatore delle tlc (per Telefonica-Telecom sia nel Mediterraneo che in SudAmerica), sia per i mercati finanziari (Recchi è stato tra l’altro vicino a Blackstone, colosso del private equity).
Certo Telecom non avrebbe bisogno solamente di “figure di garanzia”, ma di un vertice che possa lavorare sulle persistenti criticità: l’abbattimento definitivo del debito ex Opa Colaninno (e del “goodwill” che per ora lo pareggia nell’attivo patrimoniale) e il rilancio strategico – e reddituale – nelle tlc di nuova generazione. Recchi e Patuano sono però un ticket largamente accettabile per Telecom “qui e ora”.
Nel frattempo quella di Recchi in Telecom (che dopo quasi vent’anni non sembra essersi ancora davvero de-statalizzata) è nei fatti la prima delle nomine del grande giro primaverile nelle aziende pubbliche: secondo alcuni, alla base dell’accelerazione del Pd di Renzi nel cambio di governo. È impensabile che Palazzo Chigi non sia stato coinvolto in un’operazione nel quale la notizia del vuoto da riempire alla presidenza dell’Eni vale tanto quanto il preannuncio su Telecom. Già, perché gli osservatori da ieri scommettono con più decisione sul passaggio alla poltrona superiore di Paolo Scaroni, attuale amministratore delegato di Eni. Una prospettiva densa di significati. La semi-riconferma di Scaroni segnalerebbe un approccio meno radicale, da parte di Renzi, nella “rottamazione” dei grandi manager pubblici. È vero che l’Eni potrebbe rivelarsi un caso singolo, ma qualcosa di simile non è escluso possa avvenire anche per Massimo Sarmi, alla guida operativa delle Poste in vista della privatizzazione.
Scaroni e Sarmi – top manager pubblici di lungo corso – sono stati in ogni caso inequivocabilmente sponsorizzati dal centrodestra berlusconiano. Rispettare le regole di vita aziendale di una multinazionale quotata come l’Eni e di un gruppo a forte contenuto finanziario e in via di quotazione come le Poste, difficilmente significherà tuttavia per Renzi rinunciare a imprimere propri segni di alternanza. E se il “puzzle” delle nomine incomincia a comporsi, assume più rilievo la candidatura di Leonardo Maugeri ad amministratore delegato del cane a sei zampe.
Uomo di studi e strategie, Maugeri è stato allevato dall’Eni ed è uno dei massimi esperti mondiali di energie vecchie e nuove. Perfettamente inserito negli ambienti Usa (mentre Scaroni era indubbiamente più proiettato verso la Russia e i suoi satelliti asiatici), Maugeri vanta un solido accreditamento nella sinistra di governo che ha preceduto la svolta renziana. Un suo ingresso nella stanza dei bottoni Eni potrebbe far quadrare molti cerchi: ancora una volta all’insegna di un pragmatismo che non è (almeno finora) nel dna del renzismo. Certamente, un ticket Scaroni-Maugeri a capo dell’Eni non partirebbe privo di incognite: il secondo è uscito dai piani alti di San Donato quando il primo vi è entrato. Ma può Renzi accompagnare Scaroni fuori dall’Eni nell’attuale momento geopolitico?
Visto da quest’angolatura, il futuro di Scaroni “nell’era di Renzi” può far già pensare ad altre figure chiave nella storia politico-finanziaria: se non proprio a quella del fondatore dell’Eni, Enrico Mattei, certamente a quella di Cesare Romiti. Per un ventennio l’ex “boiardo” di Alitalia e Finmeccanica arruolato dalla Fiat di Gianni Agnelli ha salito tutti i gradini della piramide del potere italiano: fra Roma e il Nord, fra la Prima e la Seconda Repubblica; fra la famiglia Agnelli e Craxi; fra Andreotti e i magistrati di Mani Pulite (gli stessi in cui incappò anche il giovane Scaroni); fra industria pubblica e privata; fra Mediobanca e il Corriere della Sera; fra la Ford e la Cgil. Asceso alla fine alla presidenza della Fiat, chiedendo spazio all’Avvocato; fermato alla fine da una condanna un po’ beffarda, che per un solo giorno di mancato possesso di requisiti di onorabilità bancaria gli impedì di essere il vero erede di Cuccia.
Le cose, nel dopo Cuccia, sarebbero andate certo diversamente con Romiti in campo. Al centro del campo del potere italiano, invece, si è portato via via Scaroni. E pare sempre più probabile che ci resti.