Lo spread italiano è a 175, ai minimi, ma scenderà ancora. Il consenso, sul mercato, è massiccio: 150 è già scontato, prossima fermata quota 100. Forse anche per questo il premier Matteo Renzi sta guadagnando qualche giorno in attesa di presentare il Def. Le previsioni di costo del debito pubblico possono regalare benefici anche a nove zeri alla difficile politica economico-finanziaria chiamata a scavalcare l’appuntamento elettorale europeo di maggio e presumibilmente guardare a un voto politico anticipato fra un anno.

E se lo spread atterra, la Borsa italiana vola: sembra un proverbietto, ma nel caso specifico non lo è del tutto. Il Ftse-Mib (indice-guida di Piazza Affari) è ancora sotto del 50% rispetto ai massimi pre-crisi di inizio 2007, ma la sua performance nell’ultimo anno parla di un +40%. L’uno-due inferto dalla crisi finanziaria e poi dalla recessione ha colpito l’Italia assai più duramente di quanto le turbolenze globali abbiano fatto negli stessi Stati Uniti: dove a Wall Street lo S&P 500 è infatti ben oltre i picchi del pre-Lehman.

I margini di recupero e di rimbalzo per Milano erano quindi sulla carta certamente ampi, ma altrettanto pacifico che non hanno potuto minimamente contare – almeno finora – su accenni di ripresa effettiva del Pil, né di sostanziali cambiamenti della politica monetaria e fiscale da parte di Bce e Ue. Soltanto da due mesi agisce – in via virtuale – l’effetto-cambio di governo, all’uscita da una fase di emergenza tecnocratica. Del tutto reale è invece l’interesse dei capitali internazionali per l’Azienda-Italia: per i suoi titoli governativi e per le sue azioni quotate.

Il super-gigante Blackrock acquista grandi quote di blue-chips come Mps, Telecom e Intesa Sanpaolo (con il benvenuto esplicito di un presidente ben poco globalista come Giovanni Bazoli). La Bank of China arrotonda verso l’alto i suoi pacchetti di Eni ed Enel. Due banche praticamente obbligate da Bankitalia all’aumento di capitale (Banco Popolare e Carige) decollano all’annuncio (ma positiva è la reazione dei mercati all’operazione-pulizia decisa sia da UniCredit che da Intesa). Dal canto suo l’indice Star di Piazza Affari – quello che raccoglie le società di media capitalizzazione del listino – è quasi un caso europeo per il suo dinamismo. Perfino il capo-economista della Goldman Sachs strizza l’occhio: «I fondamentali dell’Italia sono meglio di quelli della Spagna».

Ecco, proviamo a partire da qui per una breve riflessione problematica: con tutte le semplificazioni analitiche del caso e anche le difficoltà di trarre sintesi. Anche nell’estate 2011 i fondamentali dell’Italia erano migliori di quelli della Spagna. Anche la Spagna, mentre lo spread italiano decollava a 575, ha beneficiato oltre misura di elezioni politiche anticipate e di una nuova premiership. Non per questo il sistema bancario iberico migliorò di colpo e neppure di poco: sei mesi dopo – non ci stancheremo di ripeterlo – l’Unione bancaria nasce come risposta al sostanziale fallimento di sistema del credito in Spagna. 

Eppure nell’autunno 2011 erano state le banche italiane le grandi bocciate in occasione del primo stress test dell’Eba. Quelle stesse banche si sono ricapitalizzate – spesso più di una volta – sul mercato: salvo Mps, non hanno dovuto chiedere aiuti di Stato o internazionali come quelle spagnole. E ora stanno sopportando con le loro forze pesanti svalutazioni di bilancio: per ora senza “bad bank”, cioè senza dover ricorrere al mercato per svendere le proprie sofferenze.

Su queste banche italiane puntano con impazienza gli investitori internazionali: ma sono gli stessi che le avevano pesantemente vendute nel 2001-2012, perché lo spread sovrano (cioè un fattore esterno) rendeva i loro attivi potenzialmente più rischiosi di quelli zeppi di derivati delle banche tedesche; e la loro raccolta apparentemente più difficile, a dispetto degli enormi giacimenti di risparmio tuttora presenti in Italia (lo ha notato alcuni giorni su queste pagine Paolo Annoni).

Quindi? Tutto bene, certo, se i capitali internazionali “riscoprono” l’Italia, ma attenzione al rischio che per quei mercati “l’Italian recovery” non sia una “sexy story” speculativa (non da ultimo per le privatizzazioni in arrivo): la stessa “storia”, del resto, che tre anni fa ha funzionato esattamente alla rovescia. Un “complotto bello e buono” lamenta ancora oggi Giulio Tremonti nel suo ultimo libro. Non ha tutti i torti, ma non ha neppure del tutto ragione. I mercati non sono né buoni né cattivi. Hanno un unico imperativo: fare soldi con i soldi. E nell’estate 2011 la “storia” dell’Italia fallita era perfetta per moltiplicare sul fronte dei tassi il leggendario attacco alla lira di George Soros vent’anni fa. Con la differenza che oggi l’oligopolio bancario di mercato è assai più grande e potente: “too big” forse anche per il debito pubblico Usa o per il London Stock Exchange. Una volta che i rating emessi da tre agenzie controllate dall’oligopolio stesso sono entrati nelle regole finanziarie internazionali, la cosiddetta e vituperata politica può poco.

Può utilizzare i raid dei gestori, il cui compito è peraltro quello di amministrare efficientemente i risparmi e i capitali di centinaia di milioni di persone e imprese sparse ovunque sul pianeta. Gli Stati Uniti possono aver cavalcato la crisi finanziaria italiana – a fianco di quella greca – per tenere alta la tensione geopolitica dentro e attorno l’eurozona dominata da una Germania troppo esuberante. Silvio Berlusconi ha fatto certamente le spese definitive del suo inguaribile profilo di “outsider”, per di più al tramonto del suo ventennio. Ora il vento sembra aver cambiato diametralmente direzione: Matteo Renzi riceve la visita e il supporto di Barack Obama dopo aver ingaggiato battaglie pesanti su tutti i fronti, interni ed esterni. E l’intendenza sembra seguire: non tuttavia per ordine di scuderia, ma perché anzitutto conviene innescare un ciclo di “profezie che si autoavverano”, strettamente dettate da mosse ed esigenze dei mercati.

I Paesi emergenti non sono più un “game” e la Corporate America, soprattutto, non godrà più dei generosi “quantitative easing” garantiti dalla Fed di Ben Bernanke nell’ultimo tempestoso quinquennio. La Bce di Mario Draghi, invece vorrebbe continuare o accentuare l’espansionismo monetario, mentre Renzi, al debutto assoluto come leader europeo, ha mostrato irruenza anche nel chiedere un superamento del “fiscal compact” alla tedesca.

Tutto si tiene? Fra finanza e politica tutto è interconnesso, ma senza automatismi meccanici. Certo – come milioni di italiani che non operano in Borsa – non ci sentiamo di condividere l’improvviso ottimismo “fondamentale” dell’ufficio studi Goldman Sachs su un’Italia che la “prima guerra globale” di inizio ventunesimo secolo ha parecchio ridotto a “fiche” su altri tavoli, per altri player.