Gli ispettori Bankitalia a tempo pieno in casa delle grandi banche, a far da “avvocati del diavolo” perfino sui crediti in bonis, non più solo sulle sofferenze: in nome della Bce e per conto della severa Asset quality review che riconoscerà i passaporti per l’Unione bancaria. Il governo Renzi che raddoppia in corsa l’aliquota fiscale sulla rivalutazione delle quote nel capitale Bankitalia: un po’ per far quadrare le coperture sul “decreto 80 euro”, un po’ per dar di spalla al grillismo anti-bancario alla vigilia delle elezioni europee. E poi i soliti Alesina & Giavazzi, sul solito Corriere della Sera, a ripetere che così proprio non va: si tratti di Mps o Carige; di UniCredit o Intesa Sanpaolo (anch’esse “banche delle Fondazioni”); di Popolari grandi o piccole, delle banche di credito cooperativo. Tutto sbagliato, tutto da rifare: in America sì che hanno gestito la crisi bancaria, ecc.; l’Italia – periferia d’Europa – si ritrova con pochissimo credito per le imprese, coi titoli quotati in balia dei raid dei BlackRock di turno; con sportelli da chiudere (1.500 secondo l’ultima stima Abi, per difetto), migliaia di addetti in esubero, ecc. 

Per le banche italiane non c’è pace. Colpa loro, insistono gli avversari di ieri e di oggi, più o meno in buona fede. Citano – non del tutto a torto – i molti (troppi) crediti erogati alla “finanza per la finanza”: magari non investiti in derivati, ma prestati da Intesa al gruppo Zaleski azionista della stessa Intesa; oppure da UniCredit al gruppo Ligresti; da tutti (compresa Mediobanca) a immobiliaristi grandi, piccoli o addirittura minuscoli (come quegli acquirenti di casa che si sono visti tirar dietro un mutuo al 120% del valore dell’immobile, un vero “subprime all’italiana”). E quando il premier si sta spendendo in persona per adeguare economicamente – e moralizzare politicamente – le retribuzioni dei manager pubblici, le banche grandi e piccole sono sicuramente in sofferenza a giustificare qualsiasi compenso a sei zeri per i dirigenti operativi e a cinque per le centinaia di seggi in consigli e collegi assortiti.

Questo – debitamente – premesso, tutto il resto è una “questione” (e non piccola), ma non uno “scandalo”: non ci stanchiamo di ripeterlo, mano a mano che la questione bancaria resta una metafora tutt’altro che impalpabile del cambiamento delle cose, non solo in Italia. Certo, l’industria bancaria nazionale è in crisi ed è un grosso guaio: le banche – come la Fiat o l’Alitalia – sono state a lungo – e restano – imprese importanti nell’azienda-Paese. Continuano a occupare centinaia di migliaia di persone; amministrano una rara materia prima di cui l’Italia è storicamente ricca, come il risparmio delle famiglie; erogano credito “di prima mano” a centinaia di migliaia di imprese, la fabbrica di cui il Paese vive – meglio o peggio a seconda dei cicli. È un fatto – e non è un caso – che nel 2014 la proprietà delle banche di tutte le grandi banche italiane sia ancora nazionale: perfino quella del Montepaschi, in attesa del maxi-aumento di capitale. Come sarà questo sistema bancario italiano “nell’era di Renzi”?

Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha detto di attendersi che «le banche facciano la loro parte». Nell’understatement caratteristico dell’inquilino di via XX Settembre è forse possibile cogliere più di un’apparente ovvietà: anche se, naturalmente, le riflessioni sono solo di chi qui scrive. Primo: con lo spread a 150 (ma forse già a 100 entro fine anno, o comunque con un risultato non destabilizzante del voto europeo) è ovvio che le banche tornano a una pressione quasi normale sul fronte del finanziamento e della qualità dell’attivo investito in titoli pubblici nazionali: un governo che – giusto o sbagliato – si attribuisce una parte importante di questo merito politico, sprona le banche a far leva su questa stabilizzazione e a far ripartire il credito.

Resta, sicuramente, il problemaccio della “bolla” di sofferenze accumulate dal sistema bancario nei tre anni di recessione, ma l’annuncio pasquale delle due big UniCredit e Intesa sulla nascita di una procedura di gestione dei “bad loans” appoggiata sulle statunitensi Kkr e A&M sembra indicare una direzione chiara. È quella “di mercato” già seguita dalla Spagna, il cui sistema bancario è davvero entrato nel territorio del default: affidarsi alla finanza privata per smaltire le sofferenze con tecniche in fondo poco dissimili da quelle che cartolarizzavano i mutui “subprime” in titoli “Cdo” può far storcere il naso. Ma a quasi sei anni dal crac Lehman non è irrealistico prendere atto che – giusto o sbagliato – i tempi e i modi della ri-regolamentazione della finanza globale non l’hanno radicalmente rifondata.

E la “bad bank di mercato” messa congiuntamente in cantiere da Intesa e UniCredit è fatta della stessa pasta degli interventi a raggiera di BlackRock nei capitali di quasi tutte le grandi banche italiane: ne rispetta l’autonomia (l’“italianità”) entro limiti accettabili, anche se indubbiamente le pone sotto una tutela che può essere alla fine più significativa delle stesse “operazioni non convenzionali” studiate dalla Bce per garantire liquidità alle banche europee. E questo fa da premessa al passaggio finale: con lo spread a 100, i conti economici delle banche italiane non saranno più drogati, ma saranno poco sostenibili (per gli azionisti, per i presidente e top manager con bonus, per i dipendenti). Dovranno ristrutturarsi: con fusioni, accorpamenti di reti, riorganizzazioni di strutture centrali, abbandoni di business finora gestiti in proprio e non più competitivi per dimensione o qualità.

La “tutela americana” (affine al “mood” politico renziano) promette una difesa flessibile da incursioni estere (europee) non gradite, laddove anche la Banca d’Italia di Ignazio Visco appare un po’ rinfrancata ai tavoli delle regole, sempre difficili. Ma – come ha detto Padoan – ai tempi di Renzi sono le banche stesse che devono darsi da fare per prime. Come tutti.