I pm di Siena hanno chiesto l’archiviazione per la Banca Mps ai fini della responsabilità societaria (“legge 231”) per l’acquisizione di AntonVeneta del 2007, “madre” del crac di Rocca Salimbeni. Valuterà il gup se considerare – almeno sul piano formale – la banca senese “vittima da assolvere” per l’episodio-chiave della sua tormentata storia recente. Il giudizio si presenta tuttavia meno scontato e più problematico di quanto possa apparire: proprio alla luce della legge che – nel 2001 – ha superato il principio della responsabilità penale strettamente personale, chiamando in causa la società nel suo complesso come soggetto eventualmente convocato a rispondere di illeciti.
Bene: proprio gli esiti dell’indagine su Mps hanno confermato che la banca era un vasto “groviglio” ben poco armonioso sul piano della governance di un grande gruppo quotato, al centro di una città-giungla, minata dalla politica locale, abbarbicata attorno al Monte. E allora perché archiviare proprio l’ipotesi di responsabilità ex 231, della responsabilità “corale” del Monte come Grande Fratello di Siena?
La legge 231 è nata appunto per modernizzare un approccio giudiziario datato, legato all’idea che atti e fatti risalgano strettamente ed esclusivamente a singoli individui (ad esempio, in Mps, solo un presidente come Giuseppe Mussari o solo un direttore generale come Pierluigi Vigni). Ma l’acquisizione AntonVeneta – secondo quello che ribadiscono gli inquirenti stessi – si è rivelata un passaggio molto complesso: al quale ha preso parte una pluralità di soggetti interni alla società (amministratori e dipendenti, a cominciare dalla “banda del 5 per cento” della direzione finanziaria) e ancor più numerosi soggetti contigui (la Fondazione azionista i suoi organi e i suoi stakeholder; le authority di vigilanza, i consulenti, ecc.).
La società – al suo interno o verso l’esterno – ha mostrato capacità di auto-regolarsi e di resistere alle spinte ambientali, a comportamenti devianti sul piano della “sana e prudente gestione” prescritta dalle normative bancarie? Ad avviso di chi scrive no: esattamente come un disastro della finanza come quello di Société Générale non è realisticamente attribuibile alla responsabilità isolata dell’oscuro trader Jerome Kerviel e neppure a quella apicale del Ceo Daniel Bouton. La responsabilità è stata “di Société Génerale” (oppure di JPMorgan Chase e delle consorelle, chiamate non a caso a transazioni astronomiche). È inevitabile quindi “pensar male” anche di questa svolta dell’inchiesta senese, nella quale il testo degli inquirenti sembra assumere una tipica funzione “catartica”: condannare in termini oratori, ma non affondare il coltello in termini giudiziari. Con una finalità implicita comprensibile: non aggravare le conseguenze dello “tsunami” bancario che ha già cambiato per sempre la storia plurisecolare di Siena.
Non chiamare alla sbarra “la banca” equivale non solo a porre al riparo il suo bilancio a cavallo della ricapitalizzazione-salvataggio, ma anche ad archiviare la posizione della “città” e procedere contro i “mariuoli” del caso (i “compagni che hanno sbagliato”, nella tradizione del vecchio Pci, egemone a Siena).
L’oratoria della Procura di Siena, nel merito, resta comunque di grande interesse. Nell’autunno 2007 «Mps non stava bene e non era in grado di affrontare l’operazione AntonVeneta»: messo nero su bianco da tre Pm, e non a trenta o quarant’anni di distanza dai fatti, pone interrogativi. Anche ai giornalisti, benché tutti siano stati certamente colti di sorpresa dall’annuncio del “fatto compiuto” da 9 miliardi di euro versati per cassa al Santander.
Chi – per definizione – non doveva mostrare sorpresa di fronte ad alcuna operazione straordinaria bancaria era invece la Vigilanza della Banca d’Italia che – per definizione – deve essere a conoscenza in termini puntuali e aggiornati della situazione patrimoniale e gestionale di ogni intermediario vigilato. I Pm – nero su bianco – sono espliciti: fra le «condotte fraudolente» tenute dagli ex vertici Mps, vi fu la scelta di «mentire all’Autorità circa il fatto che la banca fosse in grado di sostenere le misure patrimoniali necessarie all’acquisto». Ancora una volta la perplessità è forte: abbracciare, in ogni caso, l’estrema linea difensiva adottata da via Nazionale significa certificare che la Vigilanza era lontana dall’essere “a prova di frode”. Alla Banca d’Italia di Mario Draghi e di Anna Maria Tarantola saranno pure stati taciuti o presentati in modo deforme dettagli sui finanziamenti in derivati, ma resta un fatto che da Palazzo Koch e dalla filiale di Siena della banca centrale non risulta sia mai giunto un solo segnale di dubbio, su un’operazione di magnitudine internazionale.
È altresì vero che il piano era stato approvato dal consiglio d’amministrazione (forse con la riserva di Francesco Gaetano Caltagirone, che però lo ha rivelato solo anni dopo). La responsabilità resta comunque soltanto del presidente e del direttore generale che hanno concepito l’affare? E la responsabilità di consiglieri noti è meno rilevante di quella di non meglio precisati «interessi e sollecitazioni esterne, ascrivibili in prima battuta al panorama politico locale e nazionale»?
Su Mps – una bomba innescata nel 2007 e scoppiata nel 2012 – siamo dunque alle solite “trame oscure”: ad esempio, quelle delle stragi su cui il premier Matteo Renzi ha detto proprio in questi giorni di voler desecretare in termini di accesso ai documenti. Serve invece a qualcosa una richiesta di archiviazione che, per il dissesto Mps, punta il dito verso la nebbia? E poi – per usare un gergo caro al giornalismo investigativo di altri anni – accusare la politica e solo la politica del disastro di Rocca Salimbeni odora sempre un po’ di “depistaggio”.
Sarà pur vero – in questa nota lo abbiamo rammentato più e più volte – che il Monte ha sempre affrontato in modo gravemente antistorico la lunga fase di privatizzazione e ristrutturazione del sistema bancario: pagando prezzi sempre più insostenibili il vincolo del controllo “civico”. Però fra l’ennesima domanda di crescita “alla sua maniera” da parte di Mps e l’offerta di AntonVeneta come scarto dell’Opa di Santander, Fortis e Royal Bank of Scotland su Abn Amro le anomalie erano più sostanziali e pericolose nella seconda: tanto più che era il frutto marcio di un’altra vicenda bancaria italiana
Se nella primavera 2014 la Banca d’Italia viene scagionata e difesa “a prescindere”, nell’estate rovente del 2005 venne caricata subito e altrettanto indiscriminatamente di tutte le responsabilità, vere o presunte, di cattiva vigilanza sulle scalate Antonveneta e Bnl. Il rapido collasso di Abn Amro dimostrò poi che il governatore Antonio Fazio – nel frattempo cacciato e poi condannato – non aveva tutti i torti come supervisor nel voler tenere a distanza il colosso olandese da AntonVeneta. E se provò a difendere con mezzi discutibili una “italianità” bancaria sempre discutibile, tuttavia lo fece a viso aperto e partendo da una visione del sistema bancario: non come invece accadde nel 2007, quando Bankitalia – ingannata, dicono oggi i Pm – diede tacitamente via libera a un “ritorno a casa” di AntonVeneta che faceva anzitutto quadrare i conti di una maxi-opera di ingegneria finanziaria della City pre-Lehman. Non quadrarono poi, definitivamente, i conti del Monte: ma non fu – neppure in via principale – per colpa di qualche politico locale.