Non è facile individuare un filo conduttore all’interno del pacchetto di misure di finanza d’impresa impostate venerdì dal Consiglio dei ministri (sarebbe anzi utile che ne parlassero un po’ più in dettaglio il ministro dell’Economia e quello dello Sviluppo economico). Il provvedimento più leggibile è senz’altro quello che allarga in via sostanziale per le società per azioni la possibilità di indebitarsi attraverso l’emissione di obbligazioni. Con la leva delle regole del codice civile, il governo mira ad aprire altri canali di finanziamento alle imprese soffocate dal “credit crunch” bancario: una “crisi nella o della crisi” che l’Unione bancaria – cioè la pulizia dei bilanci delle banche italiane e la prevedibile ristrutturazione del settore sottoposto alla nuova vigilanza Bce -rischia quanto meno di protrarre.

D’altro canto fra le armi “non convenzionali” che Draghi ha già posato sul tavolo dei 18 governatori dell’eurozona per ridare ossigeno creditizio alla ripresa c’è il modello britannico delle Abs: la collateralizzazione dei crediti alle imprese direttamente presso la banca centrale. L’esecutivo italiano stimola quindi chiaramente lo sviluppo di un’offerta nazionale di corporate bond di taglia piccola e media, eventualmente da gestire sul mercato attraverso “credit fund” specializzati: a loro volta un’opportunità anche pe le banche italiane, per quelle che sappiano cogliere l’opportunità di misurarsi con nuovi prodotti-mercati di corporate finance e asset management. Le cose andranno così in tempi non biblici?

Non sorprende, nel frattempo, che il governo abbia riproposto un vecchio cavallo di battaglia degli avversari del “bancocentrismo” italiano: la semplificazione degli oneri e delle procedure per la quotazione in Borsa delle Pmi. Un discorso, tuttavia, che non ha mai cessato di restare tale: le “securities” azionarie od obbligazionarie emesse da imprese piccole o “emergenti” non si sono mai conquistate spazi significativi e duraturi. Anzi: troppe mini-Ipo, troppi piazzamenti di bond privati hanno deluso gli investitori (soprattutto i più piccoli) e hanno contribuito a distruggere la fiducia sui mercati. Però non si può accusare Renzi e i suoi ministri se ci riprovano: decenni di studi e convegni, di documenti di Tesoro, Bankitalia e Consob lo sollecitano a seguire la via della finanza di mercato e il premier in carica non ha di sicuro remore anti-liberiste.

Certo, aumentare il numeratore della leva finanziaria per le imprese (cioè la facoltà legale di debito) non implica necessariamente diminuire il denominatore, cioè abbassare il capitale minimo per la costituzione di una società per azioni. Ciò che invece il governo ha fatto, ammettendo anche il rimborso parziale del capitale sociale. Chiedere a un giovane imprenditore di trovare solo 50mila euro e non più 120mila per costituire una Spa da quotare in Borsa o da finanziare via bond è certamente una “semplificazione”: è una scossa all’Azienda- Paese non diversa dagli 80 euro messi in tasca a milioni di italiani per rilanciare i consumi.

È invece economicamente e socialmente opinabile – anche se non in via pregiudiziale – il recupero di capitale proprio da parte di un imprenditore in difficoltà: tutto dipende principalmente da come la vedono i creditori, anzitutto quelli bancari (forse è meglio se quell’imprenditore trova un partner finanziario, meglio ancora se un investitore specializzato). In ogni caso – e resta una semplice constatazione – mentre l’Europa sta promuovendo uno sforzo strutturale di ricapitalizzazione del settore bancario, il governo italiano allenta strutturalmente i vincoli patrimoniali per le imprese. E affianca, per di più, un’altra misura “bifronte”: la possibilità di emettere azioni a voto plurimo.

Le “golden share” sono strumenti partoriti dal mercato, ma tipicamente per difendere posizioni dominanti contro l’azione piena e libera delle forze del mercato. Azioni a voto plurimo sono di fatto i poteri che alcuni Stati si riservano sulla proprietà o la gestione di aziende strategiche privatizzate. Ma anche i Wallenberg, famiglia svedese emblema del capitalismo europeo storico, controlla il proprio impero con un investimento assai ridotto rispetto alle dimensioni patrimoniali consolidate del gruppo. Le azioni a voto plurimo esistono nella legislazione olandese: sotto il cui ombrello (con un’operazione perfezionata nel fine settimana) si è riparata la “nuova Fiat” degli Agnelli e di Sergio Marchionne.

Quella di Renzi – è inevitabile pensarlo – potrebbe essere una strizzata d’occhi (anche un po’ provocatoria) a molte famiglie più o meno storiche, più o meno in salute del capitalismo italiano: non avete più la scusa per andarvene a cercate anzitutto modello di finanza societaria più accomodanti con chi vuole mantenere il controllo del proprio gruppo. Certo l’esigenza di legalizzare le “pillole avvelenate” utili a tenere lontani scalatori molesti in Italia potrebbero averla altri: ad esempio, qualche banca, qualche compagnia d’assicurazione, altri ex monopolisti pubblici. Ma è appunto prima di fare nomi e cognomi che a Piazza Affari sarebbe utile capire come mai, in un “decreto-wagoon”, ufficialmente etichettato “riforma della Pa” è stato introdotta una norma su cui ci piacerebbe conoscere l’opinione di Davide Serra, il gestore londinese che – dicono – consiglia Renzi sulle questioni di grande finanza.