Ieri mattina Silvio Berlusconi si è ripreso un po’ di ribalta politica rilanciandosi come vero interlocutore politico di Matteo Renzi sul terreno delle riforme istituzionali, dopo l’apertura a sorpresa di Beppe Grillo. Ma nelle ultime quarantott’ore la cronaca finanziaria generata dal Berlusconi imprenditore ha riservato spunti forse più interessanti.
Mondadori ha fatto un po’ di cassa con un’operazione di ingegneria finanziaria tutt’altro che scontata nella struttura e nelle finalità. La casa di Segrate ha venduto un po’ di azioni proprie e ha collocato sul mercato un mini-aumento di capitale ad hoc: in tutto, comunque, non meno dell’11,5%, salvaguardando tuttavia la maggioranza assoluta detenuta da Fininvest. L’esito quantitativo – 34 milioni – è sembrato limitato rispetto ai fondamentali del gruppo ed è parso giustificare più le motivazioni tecniche date dagli analisti che quelle strategiche offerte in termini generali da Segrate.
Il titolo – non a caso – è giunto a perdere più dell’8%, ieri durante la seduta di Borsa, non solo per l’inevitabile reazione all’allargamento del flottante. Benché Mondadori abbia ventilato la scelta di finanziare dall’interno nuove “piccole acquisizioni” nel comparto dei “digital media”, è più verosimile che il gruppo abbia dovuto provvedersi di cassa necessaria a mantenere l’indebitamento (arrivato a 4 volte il margine lordo) entro i parametri di creditori bancari forzatamente più severi. Non è casuale che i “bookrunner” del collocamento accelerato siano stati Banca Imi (Intesa Sanpaolo) e UniCredit Banca d’Impresa: la spirale del “credit crunch” (contro la quale si sta peraltro scagliando personalmente il premier in questi giorni) non risparmia neppure la corazzata editoriale della Fininvest.
La quale, peraltro, è in (non) buona compagnia con l’intera “media industry” italiana, tradizionale o innovativa: non c’è gruppo che – premuto soprattutto dalla crisi paurosa del mercato pubblicitario – non sia sotto pressione finanziaria o patrimoniale. Nel caso specifico, Fininvest ha comunque dato un’indicazione indiscutibile: Mondadori (guidata da Marina Berlusconi) resta un gioiello in cassaforte. Rimane tuttavie alle cronache di Piazza Affari alle cronache un “deal” ingegnoso ma rivelatore della sostanziale debolezza corrente di Segrate (non diversa da quella di Rcs) entro i confini dello status quo proprietario.
Nelle stesse ore l’altra metà del cielo imprenditoriale di Arcore (Mediaset, pilotata da Fedele Confalonieri e Piersilvio Berlusconi) si è vista invece incalzata da un’offerta finanziaria sostanziosa e invitante: 295 miloni (ma già pre-rilanciati a 355) per il 22% di Digital+, la pay tv spagnola di cui Telefonica de Espana vuol diventare proprietaria integrale, dopo aver rilevato il 56% dal polo Prisa in crisi. Per gli analisti l’insistenza e la “generosità” di Telefonica non sono affatto misteriose: andrebbero a pagare la rinuncia – da parte del Biscione – a fare di Digital+ il pilastro di una piattaforma satellitare europea in partnership con la francese Canal+ e Al Jazeera (Qatar).
E sotto questo profilo la proposta di Telefonica (formalmente una “public company”, sostanzialmente auto-controllata dal sistema-Spagna per via dei suoi colossi bancari) appare intessuta di interessi-Paese: Madrid non sembra gradire che soggetti come Al Jazeera penetrino nel proprio sistema-media. E forse vuole anche accompagnare alla porta Silvio Berlusconi, da tempo “indesiderabile” in molti Paesi europei per i suoi legami politico-finanziari con la finanza russa e mediorientale.
Formalmente Mediaset ha tre strade davanti a sé: rilanciare interamente sullo scacchiere a un prezzo superiore per la quota Prisa; proporre a Telefonica di proseguire la partnership azionaria (anche con pesi diversi rispetto a quelli attuali); oppure utilizzare il diritto di trascinamento vendendo al gruppo tlc il suo 22% per 295 milioni (ma più verosimilmente a 355). Certo – Mondadori o Mediaset – non s’è ancora mai visto il Cavaliere arretrare, alzarsi da un tavolo importante per il suo “core business”. Il quale però sembra mostrare l’età del suo titolare oltreché le rughe della recessione e quelle della rapida trasformazione del settore: basti solo pensare alla complicata partita per l’assegnazione dei diritti televisivi della Serie A. Una matassa che vede Cologno Monzese indietro nelle offerte rispetto a Sky, che in base alla valutazione economica si dovrebbe assicurare i pacchetti con i match di cartello sia sul satellite che sul digitale.
Certo, sullo scacchiere mediatico-finanziario non è sfuggito, in questi giorni la richiesta di una nuova frequenza digitale da parte di La7: storico e incompiuto “terzo incomodo” di un doupolio Raiset peraltro in via di superamento. E Urbano Cairo, manager di scuola Fininvest, ha trovato un partner nella EiTowers di Cologno. Sì, Cairo: azionista impaziente di Rcs e candidato-ombra a sostituire Pietro Scott-Jovane come amministratore delegato del Corriere della Sera. E a proposito: Telefonica de Espana rimane il candidato riluttante a diventare azionista strategico di Telecom Italia da cui restano in lento sganciamento Mediobanca (ormai molto vicina a UniCredit e assai meno a Tarak ben Ammar) e Intesa Sanpaolo. Questa è ovviamente un’altra storia, ma molti nomi sono gli stessi e confinano con le vicende Mondadori e Mediaset. Cioè alla parabola del Berlusconi imprenditore: che lui stesso, da sempre, sente come la sua più autentica.