Agli occhi del super-premier Matteo Renzi, dunque, il problema della media-industry in Italia non è cambiare il direttore del Tg1: il quale – ha detto ieri a Trento – non deve (più) avere come editore di riferimento il partito di maggioranza parlamentare, secondo l’ormai proverbiale “codice Vespa”. Né il premier portato in trionfo dal voto europeo sembra preoccupato di chi (forse) sostituirà Ferruccio De Bortoli alla direzione de Il Corriere della Sera, del futuro del duopolio Rai-Mediaset o delle mosse di Rupert Murdoch in Italia. Certamente non sembra un capo del governo disposto a firmare come atto dovuto un provvedimento per aiutare centinaia di giornalisti in esubero presso le grandi testate a scivolare verso pensioni dorate a spese dell’erario. O a rimodulare i contributi all’editoria come compiacente dazione ambientale di un primo ministro giovane, impaziente e già un po’ vincente, ma pur sempre ultimo arrivato.
Anche fra giornali, tv e new media, Renzi pare voler cambiare davvero e daccapo. Il Messaggero di domenica ha avuto il vezzo (apprezzabile) di aprire la prima pagina con quello che Palazzo Chigi tiene in pentola non solo per la Rai, ma per l’intero settore: intuendo che Renzi – per l’appunto – non vuole (non può) limitarsi a rimpastare gli organigrammi di Viale Mazzini dopo aver imposto alla Rai un prelievo straordinario utile a quadrare le coperture della “manovra 80 euro”. Quest’ultimo ha potuto essere al massimo il pretesto per un battibecco (voluto, programmatico) con il conduttore di “Ballarò”, che ha avuto come conseguenza lo sciopero generale proclamato dai dipendenti Rai compatti per l’11 giugno. Una risposta vetero-novecentesca che il premier, sempre ieri a Trento, ha avuto gioco facile a compatire come “umiliante”: per i dipendenti Rai, beninteso, giornalisti in testa.
È sempre più chiaro, comunque, che il premier è gelido sull’ipotesi di chiedere ogni gennaio a venire cento e più euro di canone a ogni famiglia italiana per un servizio televisivo pubblico ipertrofico e inefficiente perché politicamente lottizzato. Ma – simmetricamente – Renzi ritiene finito anche il tempo del duopolio televisivo e, più in generale, di un antitrust mediatico nazionale divenuto ormai nemico sia del mercato, sia della democrazia. Mettere sul tavolo la riforma della legge Gasparri – quasi sulla linea delle “madri di tutte le riforme” – promette in ogni caso impatti politico-economici forti.
Renzi, stavolta, mette in discussione un’azienda di Stato, non le tasse, le pensioni, i contratti di lavoro degli italiani. Preparando un radicale riassetto della “sua” Rai mette sotto pressione Mediaset, braccio armato del suo (ex) principale avversario politico: vuol fare quello che il Pd di Prodi, D’Alema e Bersani non ha mai avuto il coraggio di fare, preferendo il duopolio collusivo con Silvio Berlusconi alla soluzione del conflitto d’interesse del Cavaliere. Mettendo – prevedibilmente – in vendita reti o altri asset Rai, Renzi si propone infine come “starter” alla ristrutturazione di un settore in crisi profonda: cui un governo degno di questo nome ha il diritto-dovere di guardare come ai casi Ilva o Alitalia.
E come in questi ultimi, difficilmente lo Stato potrà intervenire con salvataggi vecchia maniera, a piè di lista: anche le imprese editoriali italiane dovranno rilanciarsi da sole. Renzi sembra intenzionato a metterci di suo una sostanziale liberalizzazione del settore e misure di privatizzazione della Rai utili anche a togliere costi e recuperare mezzi per il bilancio pubblico.
Una forma innovativa di “contributo all’editoria” potrà forse ricalcare quella studiata fra gli anni ‘80 e ‘90 per disboscare la “foresta pietrificata” delle banche: benefici fiscali per fusioni e altre ristrutturazioni societarie. Ma questo – in concreto esemplare – significa cancellare dalle cronache le eterne diatribe fra i soci Rcs, tutti pronti ad accapigliarsi per nominare il direttore in nome di qualche punto percentuale di partecipazione e invece restii a investire e ancor di più a studiare strategie serie per un gruppo editoriale nel ventunesimo secolo. Ma non c’è gruppo che non si trovi nelle stesse condizioni: poca dimensione, pochi capitali e alti costi; strategie o alleanze virtualmente inesistenti; proprietà nazionale, inadeguata sia sul piano imprenditoriale che finanziario.
Attorno a Rai e Mediaset (e a Sky) nessuno potrà mancare al tavolo del risiko, pena la sopravvivenza. E si siederanno prevedibilmente anche media player non italiani o giocatori ormai entrati nel mercato per ragioni industriali o finanziarie: come i gestori tlc (a partire da Telecom) o gli operatori di private equity, a cominciare dai fondi sovrani.
P.S.: L’ultimo Consiglio dei ministri ha nominato alla direzione generale dell’organizzazione giudiziaria del ministero della giustizia Mario Barbuto, presidente della Corte d’appello di Torino. Un magistrato sconosciuto allo showbiz mediatico-giudiziario ma ben noto agli addetti ai lavori per aver decisamente migliorato la produttività della giustizia civile nel palazzo torinese. Non ha la tessera di Magistratura democratica e questo spiega alcuni mal di pancia subito filtrati sulla stampa. Come e più che nel caso dei dipendenti Rai, il comprensibile riflesso di alcuni settori della magistratura è “buttarla in politica”, ma con due imbarazzi evidenti: Barbuto è stato nominato da un governo guidato dal leader del Pd, massicciamente premiato alle urne; e la riforma della giustizia cui sta lavorando il ministro Andrea Orlando non ha come obiettivo quello di proteggere un premier in carica dalle iniziative della Procura di Milano, ma quello di far lavorare di più e meglio i magistrati di tutte le Procure e i Tribunali italiani. Non senza smuovere un po’ l’aria fra le alte burocrazie romane.