Un banchiere centrale parla poco, il meno possibile. Commenta le sue decisioni (non sempre) in conferenze stampa stringate. Quando deve, pronuncia interventi ufficiali davanti a capi di Stato, governi, parlamenti, G-20. Si concede, qualche volta, una “lectio” in una grande università. Un’intervista non è né un peccato, né un reato: ma quando il banchiere centrale vi ricorre – come ha fatto Mario Draghi nei giorni scorsi – quasi mai può essere classificata nella routine.

Scorrendo la conversazione fra il presidente della Bce e l’olandese De Telegraaf, non è difficile coglierne lo spunto: l’esito del voto europeo di quattro domeniche fa lascia preoccupato il più importante tecnocrate europeo, il custode tecnico della moneta unica. E non può certo essere tranquillo, Draghi, nell’osservare da Francoforte il ridisegno di un euro-parlamento infarcito di nuovi gruppi populisti, euroscettici o addirittura eurofobi. Né l’inquilino dell’Eurotower può essere rassicurato nel vedere quali tensioni si siano accumulate attorno alle scelte per i nuovi posti-chiave della Commissione Ue: le pressioni di un parlamento che da Strasburgo per la prima volta vuol far pesare le sue nuove prerogative istituzionali contro gli eurocrati di Bruxelles; le spinte della sinistra europea (e in prima fila c’è il premier italiano Matteo Renzi) per un superamento dell’emergenza economico-finanziaria fortemente marcata dal “moderatismo” germanocentrico di Angela Merkel; non da ultimo gli strappi centrifughi di Londra, che nella candidatura del popolare lussemburghese Jean Claude Juncker vede tutti i freni “continentali” della rinascita della City come piazza finanziaria globale.

Nel corso di questa turbolenta “vacatio”, Draghi e il vertice Bce non sono peraltro rimasti in attesa a guardare i politici litigare. Il tasso di riferimento è stato abbassato quasi a zero ed è stato introdotto un tasso negativo sui depositi presso la Bce. Sono state impostate nuove manovre di rifinanziamento del sistema bancario per sostenere il credito ed è stato delineato un “quantitative easing all’europea”, che peraltro non ha ancora il disco verde, dentro e fuori la Bce. E nel dibattito è entrata a gamba tesa il direttore generale del Fmi, la francese Christine Lagarde, per la quale la Bce può fare di più per stimolare la ripresa nell’eurozona. In concreto: può utilizzare con più decisione la leva monetaria e – soprattutto – potrebbe mostrare maggior accondiscendenza per un euro più debole e quindi più competitivo. Ma alla fine poco importa se le critiche alla gestione dell’euro vengono dalle frange estreme dell’elettorato europeo o da un ex ministro francese installato a Washington, candidato per un attimo alla successione a Barroso al vertice della Commissione Ue.

Il problema – non ha potuto che ribadire Draghi – “è politico” e il pur consistente potere indipendente del banchiere centrale non raggiunge la discrezionalità politica del consiglio dei capi di Stato e di governo dell’Ue o dell’Eurogruppo. Lo statuto della Bce – il più importante derivato dei Trattati di Maastricht del 1991 – affida alla Bce la difesa dell’euro (da cui “indietro non si torna”, anzitutto perché ha retto benissimo alla prima grave crisi). Difesa interna entro l’inflazione del 2% (non è il problema di oggi, anzi). Difesa esterna, e questo è certamente il problema odierno, ma Draghi ne rammenta ancora una volta la portata politica assai più che tecnica: nessun “outright monetary transaction” da parte della Bce è di per sé in grado di accendere e accelerare la crescita se la politica fiscale dell’Europa continua a essere improntata all’austerity e i mercati ne sono (a ragione) convinti.

Di più ancora: nessun stimolo monetario e creditizio può funzionare se l’Ue viene percepita all’interno e all’esterno come una comunità di “creditori” e “debitori” sempre più separati e ingabbiati da nuovi muri. Ed è su questo terreno che Draghi indulge in battute parecchio “giornalistiche”: quando rammenta agli “europei del Nord” che la Grecia ha oggi un costo del debito pubblico inferiore a quello del Belgio. O che negli Stati Uniti l’Oklahoma è storicamente “debitore” e lo Stato di New York “creditore” all’interno del sistema federale del dollaro, ma nessuno se ne accorge o lamenta.

La stoccata finale è per “le banche dei paesi ricchi” (non nominati, ma sono Francia, Germania, Belgio e Olanda) che si sono salvate grazie all’euro. Oltre, Draghi sa di non potersi spingere nel mostrare le unghie e nel togliersi sassolini: il gioco politico di una moneta tecnicamente ben costruita e mantenuta è dei leader democratici. Che però non possono dar la colpa al banchiere centrale se stagnazione, deflazione e disoccupazione continuano a mordere in modo diseguale 400 milioni di europei.