Del “decreto Lotti”, che ha sbloccato 50 milioni pubblici per l’editoria italiana in crisi, i giornalisti dovrebbero parlarne solo bene: senza se e senza ma. Soprattutto quando su altri fronti – ad esempio la Pa – il governo mostra di volersi muovere con molto bastone e poche carote: almeno nelle intenzioni. Alla “casta” dei giornalisti – bersaglio privilegiato del populismo grillino e certamente lontana dalle simpatie primordiali del renzismo – sono invece arrivate provvidenze che ne rispettano uno “status” peculiare, anche se probabilmente per l’ultima volta.

La figura del giornalista “civil servant” – membro di una classe dirigente “parapubblica” del Paese – è stata forgiata da Benito Mussolini, giornalista ed editore tanto brillante quanto povero prima di diventare il più longevo premier italiano. Il Duce – grande uomo di comunicazione – non dimenticò di elevare strutturalmente la condizione socio-economica dei colleghi organizzandoli in una corporazione tuttora vitale (anzi: unica sopravvissuta) nella Fnsi; ed equiparandoli a medici, avvocati, ingegneri, ecc. negli ordini professionali del codice civile, “pendant” dei mestieri più nobili del monopolio pubblico (magistrati, professori universitari, ecc.).

Matteo Renzi (ci abbiamo già riflettuto sul caso Rai) non sta certo mostrando cautele nell’estendere le logiche rottamatorie a un’editoria nazionale indubitabilmente obsoleta in tutti i suoi segmenti. Il decreto Lotti, tuttavia, concede una parziale eutanasia ai plotoni di giornalisti sessantottini e oltre, che sovrappopolano le redazioni di stampa e tv di Prima e Seconda repubblica. Non è ancora chiaro se i giubbotti di salvataggio lanciati saranno sufficienti a far approdare tutti gli “over 50” alla riva della pensione. Il plenipotenziario del premier non ha invece torto nel sottolineare l’utilità del decreto per aprire le porte della media industry a centinaia di venti/trenta/quarantenni che da troppo tempo affrontano un precariato che spesso non è stato così duro neppure nelle classiche leggende dei “seniores”.

Più ancora, vedremo in dettaglio come e quanto la normativa riuscirà a favorire le start-up editoriali: un governo audacissimo (veramente “sussidiario”) avrebbe riversato qui almeno una parte delle risorse destinate ai prepensionamenti. Avrebbe concesso sgravi o altri sostegni ai cinquantenni che avessero abbandonato grandi gruppi in crisi e si fossero reinventati imprenditori o si fossero messi al servizio di nuovi imprenditori, tendenzialmente più giovani, competitivi sul piano tecnologico e del marketing anche se privi di esperienza nella produzione di contenuti giornalistici di qualità. Ma per aggiustare il tiro Renzi e Lotti hanno ancora tempo: forse anche per una riflessione più ampia e profonda su quale può essere la più efficace “politica per l’editoria” nell’Italia del 2014 e seguenti.

Restano infatti irrisolte la realtà critiche di un’editoria che sicuramente non può essere ricostruita su basi competitive “per decreto”: così come non è stato possibile per Alitalia o per Fiat; così come non lo sarà per l’Ilva e neppure per Telecom. Un quarto di secolo fa, uno dei settori più storici e strategici dell’Azienda Italia, fu invece riformato “per legge”. La legge Amato-Carli del ‘90 stabilì che tutte le banche del Paese – salvo le Popolari e le Bcc – dovessero trasformarsi in Spa, cioè nel modello dell’impresa di mercato. Così voleva la normativa europea che avanzava, ma soprattutto così era necessario fare perché le banche italiane crescessero rapidamente nella dimensione e accelerassero nel cambiamento.

Le vecchie Casse di risparmio che raccoglievano piccoli depositi e concedevano mutui ventennali per la casa non avrebbero potuto sopravvivere nel mercato bancario dell’euro: dove le “lingue” parlate (gli assetti proprietari, gli approcci concorrenziali, le basi tecnologiche, le soluzioni organizzative, il ritmo dell’innovazione, l’offerta di prodotti, le strutture di costo, ecc.) erano già molto diverse e sarebbero evolute a velocità ancor più accelerata.

Così come i giornalisti oggi, anche agli inizi degli anni ‘90 i bancari erano “troppi, troppo vecchi e troppo pagati”: erano impiegati-burocrati, mentre servivano figure con spiccato senso commerciale, con competenze nuove in cornici nuove (i promotori finanziari sono stati un caso esemplare di nuova professionalità “post-bancaria”). Tuttavia, i padri della riforma bancaria (soprattutto Carlo Azeglio Ciampi e Beniamino Andreatta) si guardarono bene dal ridurre la ristrutturazione del settore a un semplice problema di “esodazione” di qualche decina di migliaia di bancari. Il disegno fu molto più ampio: le banche (allora per due terzi a controllo pubblico) furono privatizzate, fuse tra di loro (e per queste operazioni furono previsti importanti agevolazioni fiscali), messe in mano a banchieri più giovani, con un background diverso. Alessandro Profumo a UniCredit e Carlo Salvatori a Banca Intesa furono i più rappresentativi fra i top manager che pilotarono ondate successive di aggregazioni (aperte a partner europei), che si confrontarono in Borsa con i grandi fondi internazionali, che filtrarono l’ingresso sul mercato italiano di servizi di asset management e di finanza d’impresa.

Fra Intesa del 1998 (al debutto dell’euro) e la Cariplo di dieci anni prima c’erano già differenze abissali. Certo, a fine anni ‘90, arrivò anche il primo grande “esodo” di bancari: circa 30mila, il 10% dell’intero organico nazionale. Ma non fu traumatico e fu quasi per intero autofinanziato da un settore a quell’epoca col vento in poppa. Fu comunque il mercato a premere sulle “vecchie” banche, a imporre l’arruolamento di più giovani “front-officer”, destinati al rapporto con la clientela. Fu la combinazione fra tecnologia e mercato a rottamare le figure del tradizionale “back office”: il cassiere, il contabile, lo sportellista generico. La riforma del ‘90 ebbe il merito di scuotere davvero l’ormai proverbiale “foresta pietrificata” ed ebbe il coraggio di un’innovazione a tutt’oggi discussa: la creazione delle Fondazioni come azioniste delle nuove Spa bancarie privatizzate. Però nessuno può dubitare che la strategia di lungo periodo abbia funzionato: sicuramente nel portare il sistema bancario italiano dentro l’euro e nel fargli superare per buona parte la grande crisi globale.

La “media industry” italiana non è in una situazione molto diversa da quella del sistema bancario italiano di trent’anni fa. Come il San Paolo di Torino o la Cariplo allora avevano lo Stato come padrone, le “media company” italiane hanno per lo più come azionisti di controllo un manipolo di investitori incapaci di fornire sia nuovi capitali che dosi nuove ed effettive di imprenditorialità-media. Sono aziende piccole e di respiro nazionale, ormai non più difese né dall’effetto lingua (come le banche lo erano dalla valuta nazionale), né dalla combinazione tecnologia-costo dei vecchi prodotti cartacei.

Hanno top manager senza spiccato profilo competitivo nel loro settore. Sono grandi imprese “fordiste” cariche di lavoratori dipendenti rigidamente funzionali a “catene di montaggio” antiquate. E – non ne vogliano i colleghi – nel profondo dell’editoria giornalistica italiana resta radicato l’archetipo “mussoliniano” in base al quale editori e giornalisti formano un’unica corporazione di intermediari di notizie all’interno di un’Azienda-Italia autarchica.