Tutto è finito con una clamorosa bocciatura in Appello per un pezzo da novanta della Procura di Milano: Ilda Boccassini, “aggiunto” per i reati di mafia. Ma tutto era cominciato – anzi: aveva cominciato a finire – quattro mesi fa con un clamoroso cartellino rosso sventolato dalla stessa Corte d’Appello milanese contro un altro “aggiunto” di Edmondo Bruti Liberati: Alfredo Robledo, delegato ai reati contro la Pubblica amministrazione, fino ad allora semisconosciuto ai non addetti ai lavori.
Sembra preistoria, ma era soltanto il 7 marzo: Matteo Renzi aveva giurato da due settimane e nel suo proclama rottamatorio “una riforma al mese” non c’era il minimo cenno alla giustizia. Quel giorno l’Appello di Milano azzerò le condanne in primo grado ai manager di quattro grandi banche internazionali per le perdite subite dal Comune di Milano indebitato in strumenti derivati rischiosi. Processo duro, pesante. Poche intercettazioni, molto percorso di guerra fra contratti e bilanci in inglese. Bassa esposizione mediatica, alto profilo “strutturale”: il rosso potenziale accumulato sui derivati contratti dagli enti locali italiani è tuttora stimato nell’ordine di molte decine di miliardi, mentre una mina paragonabile (una trentina di miliardi) è innescata nel bilancio dello Stato. Per non parlare delle ferite dolorose, spesso mortali, lasciate dalla finanza strutturata nei bilanci di migliaia di imprese italiane.
Nell’inchiesta contro Ubs, Deutsche Bank, JP Morgan e Depfa Bank, Robledo aveva ribadito le sue caratteristiche di inquirente aggressivo, spigoloso, incurante delle accuse di pregiudizio ideologico contro il capitalismo finanziario. Ma aveva confermato anche la capacità di portare a casa un risultato giudiziale su un terreno ostile per un Pm italiano: da solo contro il potente establishment bancario (per Robledo era stato così anche anni prima nel processo Trevitex), spesso ostacolato da una regolamentazione antiquata, sempre contrastato da legioni di mega-studi legali internazionali. In primo grado aveva comunque vinto il suo punto di vista: le banche internazionali non solo avevano procurato un danno multimilionario alla seconda municipalità italiana, ma avevano commesso anche reati, illeciti penali. Tesi poi decapitata in Appello, nella quasi indifferenza dell’opinione pubblica e nell’imbarazzo di molti commentatori .
Si è detto (sottovoce) che un Paese malato di spread come l’Italia non poteva permettersi di porre questioni di legalità finanziaria contro l’oligopolio globale. Che Roma non avrebbe mai ottenuto dalla Svizzera un accordo fiscale per il rientro dei capitali lasciando sul tavolo una condanna a Ubs. Tre giorni dopo, in ogni caso, Robledo formalizzava l’ormai storica lettera-denuncia al Csm contro il suo procuratore-capo: un evento che, ogni giorno di più, assume dimensioni paragonabili all’arresto di Mario Chiesa nel febbraio ‘92. Allora lo tsunami civile investì la politica e l’economia del Paese, oggi la reazione a catena è invece tutta interna alla magistratura che allora innescò Mani Pulite.
Siamo certi che l’iniziativa di Robledo era maturata ed era stata preparata prima del ceffone subito in Appello sui derivati di Milano. Però la coincidenza temporale – soprattutto a valle dell’incandescente cronaca delle ultime settimane – resta significativa: almeno per chi qui scrive, anche al di là dello stesso “sentire” dei protagonisti. Nulla riesce a impedirci di pensare che il palazzo di giustizia milanese (a dispetto delle muraglie cinesi teoricamente esistenti fra magistratura inquirente e giudicante) abbia voluto allora inviare un segnale preciso, a Robledo, di cui evidentemente erano note le intenzioni. Ma sotto questa luce non appare privo di coerenza neppure il curioso “contrappasso”: la bocciatura in Appello della sentenza Ruby, la sconfitta bruciante di llda Boccassini, collega di Robledo e obiettivo vero delle sue denunce, che al Csm alla fine hanno aperto molto più di una breccia.
Il processo Ruby – almeno a chi riflette in questa nota settimanale – è sempre apparso l’esatto contrario di quello sui derivati di Milano: a cominciare dal fatto che il caso non rientrava nelle competenze fissate dal capo della Procura milanese per Boccassini, cioè la guida dell’antimafia nel distretto milanese. Ancora: la moralità privata del cittadino Silvio Berlusconi non è irrilevante se essa minaccia l’efficienza e la sicurezza dello Stato, ma il giudizio (politico) spetta alla fine a elettori ed eletti. Il costo delle azioni investigative dispiegate contro l’ex premier è apparso del tutto sproporzionato, tenuto conto di ben altre esigenze di tutela della legalità entro i vincoli sempre più stretti del bilancio pubblico. Ed è oggettivamente discutibile anche il costo politico esterno dell’iniziativa giudiziaria e della sua esasperata mediatizzazione in un periodo difficilissimo per il Paese (difficilissimo anche e soprattutto sul fronte finanziario sul quale Robledo combatteva la sua battaglia “oscura” in direzione opposta).
Non per questo – e non per gioco – anche la sentenza “ammazza-Ruby” ci appare alla fine forzata, “sbagliata” come (nella nostra ipotesi interpretativa) è stata quella contro Robledo : suona come il tentativo (tardivo) di pezzi di apparato giudiziario di fermare la valanga che la palla di neve gettata da Robledo ha ormai prodotto dentro la magistratura. Nondimeno, lo standing dei due protagonisti della “staffetta dei bocciati in Appello” appare la premessa per un confronto effettivo, anche se probabilmente difficile e doloroso, nel corpo giudiziario e nel Csm che ne tutela l’autonomia costituzionale.
Nessuno può onestamente ridurre all’inchiesta Ruby un giudizio storico sull’azione di Ilda Boccassini e di tanti suoi colleghi correntemente definiti “militanti”. Ma è altrettanto vero che – stavolta – le “inaudite” critiche di Robledo alla collega e al suo capo hanno trovato udienza: presso altri settori della magistratura, oggi meno sensibili alla conservazione di uno spirito corporativo e di più alla costruzione di una nuova credibilità democratica, professionale prima che istituzionale.
Chissà, forse Renzi farebbe meglio a non accelerare i tempi della riforma della giustizia: a dare ai magistrati la chance che vent’anni da non diedero a Bettino Craxi che si diceva pronto a trasformare dall’interno la Prima Repubblica. Oggi la sovranità del Paese appare ancor più limitata. Però quattro mesi fa nessuno avrebbe detto che i magistrati italiani avrebbero iniziato a mettersi in discussione.