Può anche darsi che – per dirla con Mario Mauro – Matteo Renzi abbia “perso tempo”, ieri, nella sua veloce puntata nella Bassa bergamasca per l’inaugurazione della Brebemi. Di certo giocava in trasferta. Le infrastrutture realizzate – non nel deserto ma nell’intricato mosaico post-industriale della pianura lombarda – appartiene senza ombra di dubbio a diverse “fabbriche” politiche o finanziarie: anzitutto quella personificata da Roberto Formigoni (per quasi vent’anni presidente della Regione Lombardia, presente ieri in prima fila) o dal suo successore leghista Roberto Maroni. Per non parlare di Giovanni Bazoli, da trentadue anni leader bancario del Grande Nord lombardo, cui ieri Renzi ha riconosciuto un ruolo decisivo nel “fare” la A35.
Proviamo a dire di più ancora? Ieri Renzi non ha solo tagliato un nastro, ma anche riavvolto – almeno in parte – quello che era stato costretto a svolgere e agitare disordinatamente tre mesi fa, tirato per la giacca dai Pm di Milano in guerra fra di loro sull’inchiesta Expo. Quando ieri ha salutato nella Brebemi una grande opera “tangent free”, ha inequivocabilmente rettificato il tiro: senza nulla togliere al lancio in grande stile del nuovo “sceriffo” anticorruzione Raffaele Cantone.
Non è un caso che Renzi ieri abbia dato interpretazione autentica del progetto di riforma della giustizia in cantiere: i magistrati, ha detto indulgendo forse troppo nella sua retorica semplicistica, devono accelerare i milioni di processi civili e penali che strozzano economia e ripresa tanto quanto i ritardi o le strettoie infrastrutturali. I palazzi di giustizia – come quelli di governo, come quelli del sistema bancario, non meno di quelli delle grandi imprese – non possono essere più accumulare ritardi o conflitti. E Renzi è venuto a (ri)dirlo in Lombardia, dalla Lombardia.