«Sarà che c’è sempre qualcuno che approfitta del caos per far girare notizie, che spesso si rivelano fasulle, gettando scompiglio sui mercati. Sta di fatto che ieri Borse e titoli di Stato sono letteralmente saliti sull’ottovolante. Soprattutto in Italia». Non lo ha scritto un foglio costituzionalmente tendenzioso, sempre pronto a vedere (o a vendere) complotti assortiti di poteri forti e invisibili. Lo ha scritto Il Sole 24 Ore di sabato mattina. “Vero” ma (tra virgolette) è stato per qualche ora lo spread italiano piombato a 192 venerdì mattina: più sui titoli dei giornali che sugli statement di Mario Draghi nel pomeriggio di giovedì. La sera di venerdì, in ogni caso era già ridisceso di 15 punti: meglio del giorno prima, a ridimensionare anche l’effetto-recessione di mercoledì 6.

Chiaramente “fasulla” era in ogni caso la voce che la Bce avesse preso a sostenere affannosamente i titoli di Stato italiani sul mercato. Era un rumor falso a priori, per ragioni tecnico-istituzionali: operazioni “non convenzionali” devono essere attentamente autorizzate dal consiglio direttivo dell’Eurotower. Come nel 2011: già, l’estate in cui la bacchetta magica dello spread ha cambiato tutto in Italia e forse non solo. E ad accreditare l’idea che in quei mesi il termometro del rischio-Italia non sia stato del tutto trasparente è stato ultimamente un giornalista americano come Alan Friedman: raccogliendo l’insospettabile testimonianza postuma di Mario Monti, il premier che con alterne fortune succedette a Silvio Berlusconi.

Nell’estate di tre anni fa si segnalò per tempo Standard & Poor’s a far scoppiare i primi petardi fumogeni: contro l’agenzia major la Corte dei Conti italiana lo scorso febbraio ha avanzato una pretesa risarcitoria di 234 miliardi di danni per la raffica di giudizi negativi sul rating nazionale dal maggio 2011. Quest’anno la palma del tempismo va alla Goldman Sachs, stereotipo della spectre globale nell’immaginario mediatico. II pomeriggio prima che l’Istat certificasse il -0,2% per il Pil italiano nel secondo trimestre e dunque la recessione tecnica, due oscuri analisti italiani della banca americana hanno pubblicato un report in cui si sollevavano preoccupazioni sulla solidità finanziaria dei Pigs europei, ma si additava principalmente nel «ritardo nelle riforme strutturali italiane» il focolaio di crisi. Non indulgeremo sul tema e neppure ci fermeremo a ricordare a noia che Draghi è un “semel-partner-semper-partner” della Goldman Sachs. Di più: non mettiamo neppure in discussione la correttezza di metodo e di merito di un presidente (italiano) della banca centrale dell’euro che sollecita un Paese debole dell’eurozona a fare i compiti a casa. Saremmo sorpresi del contrario.

Meno ovvia, almeno dal punto di vista di questa piccola rubrica, è invece la sicurezza con cui le parole di Draghi sono state interpretate come “schiaffo” al premier Matteo Renzi. Il quale ha avuto buon gioco – almeno a nostro parere – a dirsi sinceramente d’accordo con un capo della Bce che lo sprona ad accelerare le riforme strutturali. Cosa più del melodrammatico finale della discussione sulla riforma – “inutile” – del Senato ha mostrato chi in Italia vuole “riformare” e chi no: per esempio, il senatore Pd Corradino Mineo, entrato a Palazzo Madama direttamente da una direzione Rai? Chi ha immaginato un’estrema resistenza al salvataggio Alitalia via Etihad: il ministro Lupi o i sindacati dei dipendenti di Fiumicino, a un passo dalla sede di Alitalia alla Magliana? Chi sta remando contro l’idea di “riformare la giustizia”, cioè di ridurre almeno al solo agosto le ferie estive dei palazzi di giustizia (non per aumentare le intercettazioni penali ma per smaltire l’arretrato di processi civili): il ministro Orlando o l’Associazione nazionale magistrati?

Ma c’è dell’altro a suggerire che il richiamo di Draghi a Renzi contenesse parecchia condivisione, se non proprio solidarietà. Anche il presidente della Bce – non diversamente dalla sua collega Janet Yellen al vertice Fed – sta sudando per disincagliare le sue specifiche “riforme strutturali”. È vero che Draghi sarà sempre in difficoltà a chiedere politiche espansive al cancelliere Merkel e alla Bundesbank fino a quando paesi come l’Italia avranno il Pil al di sotto della linea rossa e il debito pubblico al di sopra. Però è vero anche la Germania è una Signora No “a prescindere”: con Draghi non meno che con Renzi. Riguardo la politica monetaria e fiscale dell’intera eurozona piuttosto che la soluzione di una crisi greca o spagnola (a proposito: né Atene, né Madrid hanno evitato la gogna esemplare degli aiuti europei, l’Italia se l’è cavata – per ora – con la lettera del 2011).

Se d’altronde il capo della Bce vorrebbe pompare più liquidità nell’Azienda Europa, la Fed ha il problema opposto: dovrebbe/vorrebbe asciugare l’enorme liquidità immessa nella Corporate America prima per salvare Wall Street nel 2008, poi per stimolare l’economia lungo l’intera “era Obama”. Ma anche la banca del dollaro ha ben poca libertà di manovra: e non sorprende che un presidente democratico – capace di chiudere sempre entrambi gli occhi quando le lobby bancarie si sono procurate auto-assoluzioni per il passato e auto-promozioni per il futuro – abbia preteso che la stella polare della Fed diventasse l’occupazione (almeno fino alla fine del mandato alla Casa Bianca, nel 2016). I tassi, quindi, resteranno bassi negli Usa, dove il tapering del quantitative easing si profila lento, difficile, sempre più annunciato che realizzato: come l’allentamento monetario e fiscale in Europa che giace sulla scrivania di Draghi, eterna “opzione”. Come fors’anche le riforme di Renzi: il quale, tuttavia, deve pure sorbirsi le prediche veramente inutili del redivivo Francesco Giavazzi su Il Corriere della Sera su “come creare occupazione in Italia”.

Fino a che, comunque, l’economia euro-americana galleggerà sull’enorme liquidità generata negli States e viaggerà alla “velocità zero o quasi” del ciclo europeo – con tassi zero su entrambe le sponde dell’Atlantico – è comprensibile che i sistemi finanziari (banche e borse) saranno tanto nervosi quanto fantasiosi. Il “denaro gratis”, per un intermediario, è adrenalina pura: ma dall’altra parte – crisi geopolitiche a parte – ci sono economie ferme e listini a strutturale rischio-bolla.

Per operare, per far profitti occorre impegnarsi a fondo: cioè inventarsi quasi quotidianamente una sexy-story . Sono ormai lontani i bei tempi delle privatizzazioni in Europa, poi delle Opa “madri e figlie”, delle fusioni fra giganti bancari o delle tlc. Quasi dimenticata la New economy, ancora caldo il cadavere della finanza immobiliare post-11 Settembre. Oggi può esser sufficiente anche uno zig-zag di mezza estate dello spread italiano: tre anni fa la festa è durata settimane fino a quota 575. Quest’anno può bastare qualche tuffo con risalita, poche decina di punti-base. Meglio se ci scappasse a breve la privatizzazione delle Poste: molto più “mordi e fuggi”, molto più redditizia di una ben più strutturale cartolarizzazione a lungo termine degli immobili pubblici.