Il supplemento Financial Times Weekend è pensato per un’élite cosmopolita: per essere letto, tipicamente, in una villa con piscina o durante un lungo viaggio aereo in business class. Sotto la testata “Life & Arts” indica cinque interessi tematici, nell’ordine: Food & Drink, Style, Travel, Arts, Books. Sabato scorso, tuttavia, due intere pagine su sedici erano riservate a un insolito reportage investigativo su un cinese sconosciuto ai più: tale Sam Pa.

L’occhio dell’addetto ai lavori veniva subito colpito dalla collocazione anomala (non in cover, ma come feature spezzata fra le pagine 2 e 7) e dal titolo sfuggente (“The middle man”, “L’uomo di mezzo”). L’elegante richiamo rosso su “China & Africa” celava malamente un affondo mediatico di estrema durezza: un allarme brutale – “senza se senza ma” – sull’espansionismo cinese nel Continente Nero. Con tecnica collaudata: smascherare il presunto “comandante segreto” di una piovra di uomini d’affari, diplomatici, intermediari e consulenti in azione fra l’Angola e il Mozambico, fra la Guinea e la Nigeria. Denunciare l’invasione “gialla” dal Mediterraneo a Città del Capo; ovunque fra Oceano Atlantico e Indiano, magari solo un po’ meno laddove l’Islam preme. Pura Britannia vittoriana.

Nella narrazione del FT, ovviamente, mister Pa ha un passato oscuro e un presente dubbio: non può che essere una punta di diamante dell’intelligence di Pechino, un super-mandarino a suo agio sia fra gli intrighi che fra i fantastiliardi del Partito-Paese, il Dragone del ventunesimo secolo. Nessuno tuttavia lo conferma apertamente in un testo di almeno 30mila battute: salvo – fra le righe – Helder Bataglia, un non meglio identificato imprenditore portoghese-angolano, unica fonte on the record di Tom Burgis, reporter dell’ investigative desk del FT. Quest’ultimo è peraltro maniacale nel dar conto – a sua volta con toni da 007 dei tentativi di agganciare Pa al telefono (tutti garbatamente respinti “con un inglese accentato”, nota il collega con sottile disgusto).

Alla story, naturalmente, non fa difetto un tentativo di irruzione – con appropriato salvacondotto giornalistico – in cima a un grattacielo di Hong Kong: sede della China Sonagol, una mega-holding talmente poco oscura da essere padrona della leggendaria sede della JPMorgan a Manhattan, 23 Wall Street. Ma il racconto si dilunga anche sulla tempesta di mail contenenti “52 precise domande” del FT a mister Pa: rimaste naturalmente senza risposta (imperdibili sia l’ironica replica di Sanogol – “Non siamo una società quotata, non abbiamo obblighi informativi” – sia l’ostentato “sic” di deplorazione di Burgis: lo stesso con cui un archeologo-spia oxfordiano avrebbe lamentato nell’800 un tè di bassa qualità in un albergo di Baghdad o di Calcutta).

James Bond (eternamente “al servizio di Sua Maestà”) torna comunque a fare la faccia ferocissima contro il nemico del momento: la post-colonizzazione cinese in Africa. E dire che, nell’agosto 2014, non è affatto una notizia e non è detto che sia una bad new per tutti gli interessati. Prendiamo l’Angola, Paese incriminato nell’inchiesta FT in quanto prediletto dagli affari di mister Pa: nel 2004 – dice la World Bank – il reddito pro-capite era di 1.229 dollari all’anno; nel 2013 è balzato di 5.668 dollari. Effetto macro-statistico da sfruttamento delle risorse naturali? Sicuro. Effetto-corruzione nella classe dirigente? Alto. Effetto-Cina (penetrazione di tutti i “mister Pa”, siano o no spioni): altissimo. Ma per arrivare al 100% occorre calcolare anche l’aumento reale del reddito pro-capite “disponibile per i cittadini”.

Nel frattempo Luanda – nel modo più disordinato immaginabile – si è trasformata da uno slumdiroccato alla fine della guerra civile in una megalopoli irta di grattacieli. Brutta copia di Shanghai, certo, lontana dalle cartoline patinate di Washington: dove Barack Obama, la scorsa settimana, ha invitato in fretta e furia decine di leader africani per una strana giornata di pubbliche relazioni.

Fra loro c’era anche Ernest Bai Koroma, presidente della Sierra Leone, al quale FT ha dedicato l’intero lead della sua inchiesta. Lo scorso dicembre – racconta Burgis – Koroma si è fermato a Luanda di ritorno dai funerali di Nelson Mandela. Ha accolto un invito a pranzo di un gruppo di investitori esteri (cinesi…) e si è ritrovato a fianco come commensale mister Pa. Da tavola, taglia corto Burgis, Koroma si è alzato “rapito” da quello che gli ha raccontato – e soprattutto proposto – il “midde man” di Pechino. Una vecchia storia di perline e sveglie al collo?

Nel ventunesimo secolo nulla è più così semplice, così chiaro e distinto come in un film di 007 del secolo scorso. Pechino sta costruendo una “anti World Bank” con Brasile, Cina e Sudafrica . Fra le “infrastrutture” che gli imprenditori cinesi offrono a costo più o meno low ci sono anche le tlc: c’è internet. E forse nel loro campionario ci sono anche medicine anti-ebola, magari non originali ma egualmente funzionanti e più convenienti di quelle di Big Pharma. Certo, la Cina è – per ora – quella delle “muraglie anti-web”, della non-regulation su tutto quanto noi consideriamo “civiltà” (dai diritti sindacali alle norme ambientali). Non potrà mai esportare una civiltà democratica che non ha mai avuto e forse mai voluto avere. Pechino è – per ora – un “capitalismo aggressivo” come la Russia di Putin: lo analizza bene il politologo di Harvard Michale Ignatieff, guarda caso proposto in traduzione dal Foglio nell’ultimo fine settimana.

Sul Sussidiario usiamo da tempo un’altra formula – “capitalismo autoritario” – ma poco cambia: soprattutto in un’Italia che, nell’ultimo mese, ha annotato che la People’s Bank of China ha investito tre miliardi per prendere quote di minoranza qualificata in Eni, Enel, Telecom, Fiat, Generali e Prysmian. Niente perline o cammelli: le azioni sopraddette sono denominate in euro, l’Italia è il Paese dove nel 2015 Pechino parteciperà all’Expo di Milano con un padiglione quadruplo. L’Italia è quella del premier Matteo Renzi – fra uno sgambetto di Moody’s e una bega di parlamentari Pd su una virgola della riforma del Senato – ha trovato il tempo di andare in Mozambico, dove l’Eni – quella di Paolo Scaroni – convive e compete da sette anni con i cinesi per vedere di gestire una fetta di 2650 miliardi di metri cubi di gas (il fabbisogno di quattro anni di tutta la Ue). Dove l’Eni sta assumendo centinaia di ingegneri locali.

James Bond, stavolta, è solo l’agente borioso che, l’altro ieri, ha finito per distruggere tutto in Libia. Oggi si trincera nuovamente dietro i giornali upper class, con buoni e cattivi sempre al loro posto, come quando sull’impero della regina Vittoria non tramontava mai il sole. Ma oggi nessuno può più pretendere di insegnare a nessuno le buone maniere, le regole, i saperi, la concorrenza e la cooperazione, la faticosa ricerca di nuovi equilibri su un pianeta che resta unico. Tutti devono impararlo – re-impararlo – giorno per giorno. Il Dragone – uscito dall’ultimo Medioevo dittatoriale meno di quarant’anni fa – come l’Italia, che appena nel 1945 era una ex dittatura in macerie. L’Europa carolingia e le vecchie democrazie “atlantiche”.