Il caso di Andrea Guerra – ormai quasi ex amministratore delegato di Luxottica – incrocia la politica, l’industria e la finanza di un’Italia in transizione. Guerra è il manager “quarantenne” simbolo dell’Azienda-Italia nel ventunesimo secolo: è stato in successione a capo del gruppo Merloni e di Luxottica, due quintessenze dell’imprenditoria italiana. Il primo oggi non è più tale (Indesit è stata ceduta il mese scorso dalla famiglia marchigiana alla multinazionale Usa Whirlpool), ma non importa: Guerra ha fatto a tempo a fare il chief executive professionale di un brand principe dell’elettrodomestico, settore-icona dell’industria italiana. Luxottica è molto uguale a Indesit perché l’occhialeria bellunese – come la produzione di “bianchi” prodotti a Fabriano – resta una delle cento ragioni per le quali l’Italia è entrata e rimane (per ora) nel G-8.

La storia dell’azienda di Agordo è invece diversa da Indesit perché rimane un caso di successo e non solo per questo il fondatore Leonardo Del Vecchio è lontanissimo dall’idea di disfarsene o anche solo di ridurre la sua quota di largo controllo (61%). Il “performance gap” non mette comunque in discussione il profilo del top manager: capace di governare a Fabriano come ad Agordo un gruppo di raggio multinazionale a controllo familiare. Tanto da diventare una possibile scelta per la nuova “amministrazione Renzi”: si trattasse di un incarico ministeriale (con tutta evidenza quello del Mse, poi affidato a Federica Guidi, industriale figlia di industriale) oppure per il vertice di un’azienda pubblica (ad esempio, Ceo delle Poste, poi appannaggio di Francesco Caio). Sta di fatto che, tuttavia, in poco più di cento giorni Guerra non ha chiuso il cerchio con Renzi e lo ha spezzato con il suo datore di lavoro Del Vecchio.

Non sappiamo – e forse non sapremo mai – se le ragioni della rottura con Del Vecchio siano “alte” (“divergenze strategiche”) o “meno alte” (contrasti sul “compensation package” futuro o addirittura controversie sull’utilizzo delle stock option garantire finora). Ma forse – ai fini di una riflessione sulle traiettorie della “civiltà economica” in Italia – non è neppure decisivo saperlo. È sufficiente – e già rilevante – registrare la fine obiettiva dell’epoca d’oro della centralità del management nell’archetipo della public company: dell’industria “liberata” dalla proprietà individuale o familiare e consegnata al mercato finanziario, ai super-dirigenti e a tutte le loro regole del gioco.

L’ottantenne Del Vecchio accompagna alla porta Guerra non diversamente da come l’ultraottantenne Caprotti imprime ancora decisi colpi di timone alla rotta di Esselunga. Ma anche gli azionisti di Generali (fra i quali spicca lo stesso Del Vecchio, oltre a un imprenditore old come Francesco Gaetano Caltagirone) un anno fa hanno sancito la fine della “riserva dirigenziale triestina” nella guida delle Generali, esonerando (in malo modo) l’amministratore delegato Giovanni Perissinotto. E potrà sembrare una coincidenza, ma perfino il neo-presidente della Fondazione Mps – Marcello Clarich – si è subito mostrato freddo verso la permanenza alla presidenza del Monte di Alessandro Profumo: pioniere e principe indiscusso dell’intera generazione dei Guerra, dei Perissinotto, ecc.

Ora Guerra, in teoria, dovrebbe essere meno esitante verso un possibile rilancio da parte di Renzi: soprattutto se maturerà a breve il passaggio del ministro degli Esteri Federica Mogherini come “Mrs Pesc” a Bruxelles e quindi un probabile rimpasto a Palazzo Chigi. Ma il Renzi premier – ci sbaglieremo – si sta dimostrando molto più vicino a un Del Vecchio che ai manuali di mercato spacciati in saldo da qualche ingrigito professore d’Oltreoceano. Del Vecchio Luxottica l’ha fondata e fatta crescere con capitali suoi: come Renzi è – almeno per ora – premier dopo aver vinto le primarie del “nuovo Pd” e poi le europee. Con voti suoi. Mentre di candidati amministratori delegati o ministri c’è la fila.