Tra coloro che non faranno mancare la loro adesione amichevole a un Meeting già catalogato come “minore” – “di periferia”, “di transizione”- c’è il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi: parlerà venerdì, ventiquattr’ore prima dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, altro uomo d’impresa che non diserta Rimini perché in estate ha piovuto più dell’anno scorso. Il leader degli industriali italiani tace nel dibattito pubblico praticamente dal discorso d’insediamento nel secondo term di presidenza, a fine maggio. Una situazione alla fine molto curiosa quella del patron della Mapei.



Il presidente di Confindustria accusato – in parte fuori luogo – di aver dato vibrato l’ultimo colpo al governo di Enrico Letta è stato scelto dal successore Matteo Renzi come “nemico pubblico”, come simbolo di un’Italia da rottamare: e dire che Squinzi è l’esatto contrario dell’”Italia delle lobby”, attaccata dal premier nell’intervistina rilasciata a Tempi, peraltro infarcita di luoghi comuni. Squinzi è amministratore unico di una multinazionale del quarto capitalismo italiano: lontanissima da Borsa e banche; dai sussidi pubblici, dal soft power mediatico (anche Il Sole 24 Ore è tutto fuorché “il giornale di Squinzi”, eccettuato che per gli editoriali di Alberto Quadrio Curzio e di Marco Fortis).



Non ha mai inteso la ricerca di un rapporto nuovo, effective, con la Cgil come la predecessora Emma Marcegaglia. Per l’industriale mantovana i tavoli dell’estate 2011 furono solo photo opportunity legate alla spallata finale al governo Berlusconi e a un mini-collateralismo d’occasione con la vecchia Udc di Pierferdinando Casini (cui Renzi ha comunque tributato una presidenza “rosa” all’Eni). Squinzi è invece sempre stato convinto che con il sindacato e lo Stato andasse (vada) affrontato un tema come questo: può un’impresa ridurre lo stipendio a un lavoratore cinquantenne, contando con il fatto che gli ammortizzatori sociali comincino a sostenerlo?



La chiusura del cerchio è l’assunzione di giovani a “costo del lavoro di mercato”, ma con plusvalore di sistema per un’Azienda Italia che deve ritrovare competitività reale. Si chiama “patto generazionale” ed è nero su bianco nell’ultimo contratto dei chimici “by Squinzi”. Una mossa riformistica “renziana” prima dei Jobs Act di Renzi: naturalmente osteggiata dalla Cgil, la stessa che oggi minaccia Renzi di un nuovo autunno caldo.

All’epoca del autunno caldo “doc”, nel 1969, la Confindustria mise al lavoro un altro industriale milanese – Leopoldo Pirelli – per riformare un’organizzazione che aveva un problema: affermare la sua centralità sindacale e il suo primato nella rappresentanza degli interessi imprenditoriali rispetto ai grandi gruppi. Più di quarant’anni dopo, alla presidenza Squinzi è stata affidata una riforma altrettanto impegnativa, perché di senso contrario: la Confindustria doveva “sbaracconizzarsi”, alleggerirsi di governance e strutture centrali. 

Diventare meno ministero, costare meno, interpretare meglio il ruolo di “capogruppo” di associazioni territoriali e di categoria: una rete assai più varia e “federale” che in passato per l’evolvere e il moltiplicarsi di tutte le dimensioni del fare impresa. Far uscire la Confindustria da una matrice ancora molto corporativa e – addirittura – metterla in competizione con nuovi soggetti di rappresentanza della “società economica” nazionale.

Squinzi la sua riforma l’ha “consegnata”: giustamente come punto di partenza di un percorso. Ha pagato prezzi, corso rischi: non ha – per ora – reimbarcato la Fiat di Marchionne. Ha dovuto rompere con Aurelio Regina, leader degli industriali romani (sempre più romani che industriali; sempre più “professionisti di Confindustria” che associati-paganti; sempre più power broker che portatori di interessi reali). Ha assistito in silenzio alla chiamata di Federica Guidi al ministero dello Sviluppo economico (presenza peraltro missing da sempre).

Ora su Squinzi – alla vigilia della sua rentrée fine estiva a Rimini – si sono accesi i fari de Il Corriere della Sera, che sembra spingere per un biennio di coabitazione con Gianfelice Rocca, candidato forte alla successione. L’equazione sembra tuttavia elementare: poiché a super-Renzi Squinzi non piace, cambiamolo. Nessuno che si chieda se, per caso, Squinzi non piace a Renzi perché è più renziano di lui: perché vuole cambiare davvero le cose. In casa sua e attorno.