L’affaire Eni è più importante dell’affaire Montezemolo: anche se – prevedibilmente – avrà un esito diverso, meno mediatico, senza dimissioni in diretta tv. Il premier Matteo Renzi è stato tempestivo e categorico: l’amministratore delegato Claudio Descalzi – indagato insieme al predecessore Paolo Scaroni per presunte tangenti pagate dall’Eni in Nigeria – rimane al suo posto, dove l’ha collocato il governo nell’ultima tornata di nomine pubbliche. 



Una mossa ineccepibile quella di Palazzo Chigi: il governo di un paese del G8 di fronte a un’indagine giudiziaria su una grande azienda di Stato e sui suoi grand commis, o “accetta dimissioni immediate” o difende fino a evidenza giudiziaria contraria i suoi manager e tecnocrati (caso esemplare fu quello di Parigi che non rimosse Jean-Claude Trichet processato ma poi assolto per lo scandalo del Credit Lyonnais quando era già candidato alla guida della Bce).

Certo, in queste settimane, Renzi ha qualche motivo squisitamente politico per vestire panni rigorosamente garantisti: anzitutto il duello riformista ingaggiato con la magistratura, sia sul piano dell’ordinamento (ddl Orlando) sia su quello concreto del rinnovo delle rappresentanze parlamentari nel Csm e alla Consulta. Ma è verosimile che il realismo politico del “premier rottamatore” incorpori motivazioni più estese e profonde, a cominciare da quelle che Renzi stesso diede proprio in occasione della staffetta interna fra Scaroni e Descalzi, l’unica all’insegna di una sostanziale continuità rispetto al ricambo operato in Poste, Enel e Finmeccanica. “L’Eni è un pezzo importante dell’intelligence italiana”, disse il premier tutt’altro che ingenuamente, suscitando il finto stupore di molti. 

Era invece una dichiarazione di riconoscimento dell'”unicità” dell’Eni, che non è solo – oggi – la più importante azienda italiana, ma anche un veicolo strategico di politica estera. Toccare il vertice dell’Eni è assai diverso che rimuovere il presidente della Ferrari, anche se milioni di italiani riconoscono da decenni il volto di Luca di Montezemolo ai box delle rosse. Uomini senza volto dell’Eni, in queste settimane, sono impegnati a tenere aperti faticosi corridoi diplomatici fra Europa e Russia nella crisi ucraina: non diversamente dall’ex premier tedesco Gerhard Schroeder, super-ambasciatore di Gazprom.

La stessa nomina di Federica Mogherini ad Alto Commissario Ue per la politica estera e la sicurezza non è estranea all'”unicità” dell’Eni, a una storia che è tout court innestata in quella dell’Italia repubblicana: nei suoi lati più luminosi, in quelli più oscuri. Una “azienda petrolifera senza petrolio” divenne presto rilevante e scomoda, una presenza strutturale sugli scacchieri energetici e diplomatici, talvolta utile e perfino necessaria sul piano geopolitico. Enrico Mattei, presidente fondatore, fu clamorosamente assassinato dopo meno di un decennio. Ma anche soltanto tre anni fa la guerra scatenata da Francia e Gran Bretagna – opaca nelle origini quanto disastrosa nei risultati – aveva come “nemico” l’Eni – sempre aggressivo nel Mediterraneo – tanto quanto il colonnello Gheddafi.

Nel frattempo ogni “crisi Eni” ha segnato passaggi sostanziali nell’establishment italiano e nei suoi assetti. La “caduta sul campo” del partigiano (cattolico) Mattei marcò l’avvento del centrosinistra e l’ascesa di lungo periodo di tutta l’industria pubblica nazionale. Fu Eugenio Cefis, successore di Mattei all’Eni, ad attaccare frontalmente il capitalismo privato italiano incarnato dalla famiglia Agnelli, scalando Montedison. A fine anni 70, l’arrembante leader socialista Bettino Craxi utilizzò la tangente Petromin (versata dall’Eni per forniture dall’Arabia Saudita) per cacciare dalla presidenza Giorgio Mazzanti, un ingegnere Eni di stretta osservanza Metanopoli: in realtà per sbarazzarsi della concorrenza interna di Claudio Signorile e trasformare il Psi in un’incrociatore da battaglia che avrebbe pilotato il Paese fino a Tangentopoli. E quale fu il drammatico zenith di Mani Pulite se non il suicidio in carcere dell’ex presidente Eni, Gabriele Cagliari, inquisito per il piano Enimont? L’uscita di scena di Scaroni è stata infinitamente meno traumatica, ma non meno sostanziale: non è un caso che il 14 aprile scorso – quando il Tesoro annunciò la nomina di Emma Marcegaglia e Descalzi all’Eni – Scaroni fosse a colloquio di congedo con il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.

Il decennio di Scaroni all’Eni – strettamente connesso con la seconda fase della stagione politica dominata da Silvio Berlusconi – è stato caratterizzato da un forte impegno competitivo in Russia, nei paesi asiatici ex sovietici e in Africa: aree strategiche ma molto difficili per l’approvvigionamento di fonti energetiche. I risultati economici e le performance di Borsa non hanno mai tradito il vertice Eni, che invece è finito nel mirino internazionale per un’esposizione oggettiva verso la Russia, non estranea al feeling personale fra Berlusconi e Vladimir Putin. È stato questo la sponda esterna dell’intento interno di Renzi: tirare una riga divisoria fra la Seconda Repubblica e la Terza in cantiere. Che, tuttavia, nei suoi orientamenti, non deve nascere da un olocausto giudiziario come quello di vent’anni orsono ma, viceversa, da una ri-normalizzazione dei rapporti fra tutti i soggetti della vita pubblica, nelle istituzioni e sul mercato. L’ennesimo “caso Eni” ha quindi buone chance di diventare il banco di prova di un nuovo equilibrio interno fra poteri formali e sostanziali.

Un pm può e deve indagare, può utilizzare tutti gli strumenti investigativi: comprese le intercettazioni, a patto che non vengano subito trasmesse ai media. Può concludere le sue indagini “terze” chiedendo di andare a processo per sostenere richieste di condanne. In quel caso – Renzi lo ha fatto capire chiaramente – anche il governo ne trarrà le eventuali conseguenze, anche se è probabile che gli interessati da sentenze lo facciano di loro iniziativa. Ma fino ad allora il lavoro di una grande azienda – anzi della prima azienda del paese, di una grande multinazionale energetica – non può essere giocato a dadi sul tavolo di tentativi impropri di regolamenti di conti o di intimidazione.