La Fed ha confermato di aver creato all’interno del proprio board un comitato per “monitorare la stabilità del sistema finanziario riguardo l’emergere di problemi come le bolle in talune classi di asset”. Il comitato sarà presieduto da Stanley Fischer, uno dei vice di Janet Yellen, ex capo-economista della World Bank e- soprattutto – ex governatore della Banca d’Israele, prima della chiamata da parte di Barack Obama.
Doppio cittadino (israeliano e statunitense), Fischer è noto per essere stato da giovane un fervente sionista nei kibbutz. Al Mit è stato tutor di tesi di dottorato per l’ex presidente della stessa Fed, Ben Bernanke, e per l’attuale presidente della Bce, Mario Draghi. È tradizionalmente in rapporti con le grandi istituzioni finanziarie ebraiche di Wall Street, esattamente come l’attuale (ancorché poco visibile) segretario al Tesoro statunitense Jack Lew.
Toccherà comunque a Fischer – affiancato da due colleghi – tenere informarti il vertice della Fed e soprattutto il Fomc, la stanza dei bottoni dei governatori del dollaro che si riunisce domani e dopodomani (e al temine è prevista una conferenza stampa della Yellen sull’atteso Summary periodico delle proiezioni economiche). Per quanto temporanea, la riarticolazione nella governance della Fed non è affatto priva di significati.
Le “bolle” continuano a essere strutturali nella finanza del ventunesimo secolo, permanentemente “esuberante”. Prima i listini azionari imbottiti di azioni dell’allora New Economy; poi l’immobiliare gonfiato dopo l’11 settembre dal boom della finanza strutturata; infine i rialzi “artificiali” susseguitisi in numerosi segmenti (oro e commodities compresi) dopo il crac del 2007-2008: l’iperliquidità – via via creata dai mercati, favorita dai governi, non da ultimo generata dalle banche centrali (Fed in testa) per sostenere banche e Borse e stimolare l’economia – non può che generare bolle e auto-alimentare nuovi rischi, nuove instabilità. Per questo già Bernanke – un anno fa, vicino al suo passo d’addio – aveva annunciato il tapering: il rientro dalla lunga stagione del quantitative easing verso un new normal di tassi in rialzo, liquidità “corretta”, mercati più ancorati ai fondamentali economici (merito di credito degli Stati, redditività delle aziende e loro strategie di crescita con fusioni e acquisizioni, ecc.).
Ma – un Fomc dopo l’altro – il tapering vero non parte, anche se gli acquisti di titoli del Tesoro da parte della Fed stanno diminuendo. Anche sul signalling in arrivo mercoledì dalla Yellen il consenso guarda alla conferma di un aggiustamento molto lento e graduale: realisticamente agganciato alla scadenza elettorale per la Casa Bianca, a fine 2016. Ed è verosimilmente questo il motivo per cui – secondo prassi proverbiale – la Fed si dota di un comitato di alto livello per monitorare “il problema dei problemi”: perché non può affrontarlo, perché è divenuto too big per un “povero banchiere centrale” stretto fra politica e mercati . Perché – come dice il gergo sbrigativo dei tecnocrati – “è impossibile rimettere il dentifricio nel tubetto”. Soprattutto se il dentifricio serve a rendere di volta in volta smagliante il sorriso di un presidente o più fresco l’alito dei banchieri.
(P.S.: Il premier Matteo Renzi la settimana prossima sarà negli Usa, prima nella Silicon Valley e poi all’Onu. Vediamo che impressioni si porterà a casa lui da quella che resta – a differenza di Eurolandia – la patria dell’ helicopter money, della moneta gettata anche dagli elicotteri pur di bombardare qualsiasi crisi).