Sbaglia il Foglio ad attaccare con insistenza Giorgio Squinzi per una freddezza – molto presunta – sull’articolo 18 e dintorni. Se c’è un leader imprenditoriale riformista da sempre – nei fatti e non solo quando “mi si nota di più” sui giornali – è il patron della Mapei. Certo, il suo stile imprenditoriale e civile (ribadito un mese fa al Meeting di Rimini) ha sempre rifiutato di affrontare i passaggi riformatori – specie se sostanziali e faticosi – in chiave di regolamento di conti sociali, politici, finanziari, personali. I contratti siglati da Federchimica (con una Cgil sempre ritrosa ma alla fine mai contraria) ne sono un modello, anzitutto per molti imprenditori che – diversamente da Squinzi – maneggiano e rischiano “i soldi degli altri”: delle banche (cioè il risparmio degli italiani) o dello Stato (cioè le tasse degli italiani).
Sono alcuni fra questi imprenditori – sempre occupatissimi fra i palazzi romani, a cominciare da viale dell’Astronomia – a soffiare oggi sul fuoco della “libertà di licenziare” tout court: magari nella speranza (non troppo nascosta dai loro media) di vedere il premier-rottamatore Matteo Renzi schiantarsi in fretta contro il muro del suo “partito-sindacato”. E sono ancora alcuni di questi “professionisti di Confindustria” a sperare che Squinzi non porti a termine nel suo mandato la riforma della stessa Confindustria: che – ridisegnando la rappresentanza interna sulla base dei contributi – spingerebbe fuori da viale dell’Astronomia molto imprenditori-lobbysti, da convegno e da giornale.
Sulla “battaglia dell’articolo 18”, peraltro, il Foglio ha puntato il dito soprattutto contro Il Sole 24 Ore, che ha la Confindustria come azionista di larga maggioranza, ma oggi è pur sempre una società quotata, con una sua governance societaria ed editoriale. Gentilezze strettamente giornalistiche a parte, nel mirino del Foglio è finito, tre anni dopo, il titolo cubitale “Fate presto” con cui il quotidiano economico amplificò al massimo l’allarme creato, nel fine estate 2011, dalla crescita esponenziale dello spread italiano fino a 575.
Bene, il discorso del Foglio è questo: tre anni fa l’establishment imprenditoriale (allora capeggiato da Emma Marcegaglia, che si faceva fotografare volentieri con Susanna Camusso) si sgolò e sgomitò per accelerare una svolta che, nell’immediato, cacciava Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi e vi installava Mario Monti, con i gradi di senatore e vita. E in quelle settimane concitate, da Francoforte arrivava l’ormai famosa lettera firmata anche da Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia e presidente designato della Bce: vi si sollecitavano “riforme strutturali” che non sono poi state fatte né dal governo Monti (salvo un aggiustamento del sistema previdenziale), né da quello pilotato da Enrico Letta, dopo le elezioni del febbraio 2013.
Entrambi i predecessori di Renzi hanno invece inasprito al massimo la pressione fiscale, su famiglie e imprese e, nonostante gli sforzi, non sono riusciti a creare basi minime per la ripresa: né muovendo le leve economico-finanziarie interne, né quelle politiche in sede Ue. È quanto invece sta provando a fare Renzi, il quale – dopo aver congelato gli aumenti ai poliziotti e tagliato le ferie ai magistrati – sta ora mettendo sul tappeto la più strutturale delle riforme economiche: quella che aumenta la “flessibilità in uscita” nel mercato del lavoro, non solo per le piccole imprese.
Bene – chiede il quotidiano di Giuliano Ferrara – perché il Sole non mostra la stessa fretta decisa nell’appoggiare il superamento sostanziale dell’articolo l8? Perché – nell’edizione di ieri – resuscita – come “mediatore” autocandidato fra governo e Cgil – Pierluigi Bersani, ex leader del Pd “perdente”, sconfitto tanto democraticamente quanto nettamente sia alle primarie che alle politiche del 2013? Forse il riformismo dettato da Draghi a Monti nel 2011 – nel polverone dei mercati, con la benedizione del Quirinale, il tifo del Sole e di molti media ed esponenti dell’establishment italiano – serviva solo ad accompagnare alla porta “l’anomalia Berlusconi” perché poi nulla cambiasse veramente nel Paese? Qui il Foglio – forse – non ha tutti i torti.