Il premier Matteo Renzi ha un po’ di voti ma è quasi senza soldi. I voti – parecchi ma ancora leggeri – sono quelli raccolti nelle primarie del Pd e alle europee di maggio (potrebbero essere confermati e diventare pesanti alle prossime elezioni politiche: ma non prima di mille giorni, assicura lo stesso Renzi).
I soldi sono quelli che mancano al Pil italiano e al budget statale: soldi per stimolare la ripresa, per sorreggere i redditi e il welfare delle famiglie più colpite dalla crisi, soprattutto per investire nel sistema-Paese. Anzi: aiutare le imprese a re-investirci, italiane o estere che siano. Sono comunque soldi che Renzi sta cercando di racimolare in tutte le maniere: cercando di allentare i vincoli di bilancio Ue; poi scuotendo gli imprenditori italiani a raschiare un po’ di fiducia nel fondo di un barile non ancora vuoto di capitali. Poi contando che la Bce di Mario Draghi – se non potrà comprare titoli del debito pubblico italiano – almeno spinga le banche italiane a fare un po’ più di credito attraverso le operazioni Abs. Non da ultimo – ed è la parte certamente più ingrata del suo lavoro – Renzi sta provando a imporre ai dipendenti pubblici i sacrifici che stanno già sopportando gli occupati e i precari del privato, nonché i disoccupati, a cominciare dai giovani.
Sulle privatizzazioni, Renzi sembra invece più freddo, per ragioni forse più politiche che finanziarie, peraltro intuibili e in parte condivisibili. Fin da quando era una raising star Renzi si è sempre detto contrario a vendere – anche solo in tranche – aziende come Eni o Enel “per far cassa”: l’Italia non è la Grecia e neppure la Spagna, niente cappelli in mano in Europa, tanto meno gioielli al monte dei pegni della City o di Wall Street. Niente “taglia debiti” che – ha detto in un’intervista al Sole 24 Ore – suonano malissimo in termini di reputazione. E niente “Britannia-bis”: le buone aziende (come le utilities ex municipali) non vanno vendute, ma fatte crescere in casa. Diverso il caso dell’Alitalia o dell’acciaio di Piombino (o dell’Ilva): se ci sono capitali esteri disposti a rilanciare aziende in crisi, nessuna esitazione. Meglio se in partnership: come anche sulla rete Snam, fra investitori cinesi e Cdp. E se poi gli stessi finanzieri pechinesi spuntano anche in Fiat e Generali, tutti sanno che l’inquilino di Palazzo Chigi – un liberista realista – è tacitamente favorevole.
Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, ha i voti dei suoi 150mila associati (non tutti: gli sono sempre mancati quelli degli appartenenti al “salotto di Cernobbio”). Come imprenditore è comunque sempre riuscito a guadagnare ed accumulare soldi sufficienti per sostenere occupazione e lo sviluppo della sua Mapei: non diversamente dai fratelli Bonomi, che sabato hanno ospitato – e applaudito – Renzi all’inaugurazione di un grosso investimento produttivo alle porte di Brescia.
Certo: tutti sono un po’ parenti di Leonardo Del Vecchio, che a 80 anni ha licenziato il top manager della “sua” Luxottica e ripreso un po’ il timone (ma Michael Bloomberg ha appena fatto lo stesso con il “suo” gigante dell’informazione: con tanti saluti al concorrente Financial Times che gli ha “consigliato” di aumentare il flottante a Wall Street). Certo, molti di questi industriali del Nord quarto-capitalista – spesso vecchiotti come lo stesso Bernardo Caprotti di Esselunga – somigliano all’ormai attempato Silvio Berlusconi, di cui sono non di rado amici.
Berlusconi: uno che ha avuto e continua ad avere voti e soldi. Peccato che non abbia mai usato i primi con la stessa abilità con cui ha fatto fruttare i secondi, ma è un’altra storia ed è tardi per parlarne. Tuttavia il suo “capitale di voti” – rigorosamente targato “Berlusconi”, poco importa se Silvio e Marina – non si volatilizzerà rapidamente e sarà sempre più disponibile come “opposizione responsabile”: la stessa che fa già del governo Renzi una “larga intesa”, premendo sempre più nell’angolo il populismo grillino.
Immaginiamo intanto il sincero gusto con cui il Berlusconi imprenditore – quello più autentico – ha letto sulCorriere della Sera il presidente della Telecom, Giuseppe Recchi, tastare il terreno per
Un’alleanza con Mediaset che tolga l’ex colosso pubblico dalle spaventose secche strategiche. Telecom: quella che Prodi, Ciampi e Draghi svendettero – con ipotesi di danno erariale ha scritto la Corte dei Conti quindici anni dopo – e nella quale la famiglia Agnelli investì solo per lo 0,6 per cento, eccetera eccetera fino ad oggi.
È contro Torino – concentrato storico di un capitalismo relazionale, con pochi capitali, molto credito bancario, molti sussidi pubblici e molti giornali – che Renzi ha certamente rivolto il suo nuovo mantra: “Io sto con chi investe e chi paga le tasse in Italia”. Sette anni fa, proprio fra i corridoi di Villa d’Este nacque e morì l’ultimo vero tentativo di “progetto Paese”: il piano Rovati per un completo riassetto finanziario e strategico di Telecom, lo scorporo della rete e la sua trasformazione in una grande infrastruttura digitale nazionale, la chiamata al tavolo di tlc & media mogul come Rupert Murdoch e Carlos Slim; il non improbabile salto di qualità di Rcs all’interno di una media company globale. Non se ne fece nulla: il “salotto di Cernobbio” (cui appartenevano anche Prodi e Marco Tronchetti Provera) era già in declino allora. E tutto fu lasciato in mano alle solite banche “cernobbiane”.
Oggi siamo convinti che Renzi si accontenterebbe di assai meno di un “piano Rovati”: gli piacerebbe che gli Agnelli e Diego Della Valle investissero qualche centinaio di milioni di capitale proprio in Ntv. Il gestore di Italo è duopolista dell’Alta velocità in Italia, non diversamente da come Omnitel lo fu per anni di Tim nella telefonia mobile in boom prima che l’Olivetti di Carlo De Benedetti la rivendesse a Mannesmann e ritentasse malamente lo stesso colpo con le centrali elettriche cedute dall’Enel (Silvio Berlusconi – che pure secondo alcune sentenze della magistratura non ha sempre pagato tutte le tasse che doveva in Italia – è diventato duopolista della Rai investendo in Italia: comprando Retequattro da Mondadori e Italia Uno da Rusconi, entrambe fallite. E c’è da stupirsi se il Renzi dell’epoca, Bettino Craxi, non stesse con la Fiat ma con un imprenditore arci-italiano, capace prima di macinare soldi e poi voti?).